Cari fratelli e sorelle,

siamo riuniti questa sera, nella Chiesa Madre della Diocesi, per venerare la memoria del santo Patrono Berardo, chiederne nella preghiera l’intercessione, imitarne nella vita l’esempio di coraggio e di fedeltà.

Questa solenne Eucarestia chiude, inoltre, l’anno giubilare per il nono centenario della sua morte, durante il quale ci sono stati momenti di riflessione che hanno coinvolto le varie realtà ecclesiali della Diocesi e quelle socio-culturali del territorio. «È stata l’occasione – come ha affermato il vostro Vescovo –  per rilanciare il motto benedettino e berardiano “Ora et labora”, vivendo il cammino sinodale nella prospettiva della rinnovata azione evangelizzatrice indicata da Francesco nella Evangelii gaudium alla luce della Evangelii nuntiandi di Papa Montini».

Saluto il vostro Vescovo, Mons. Lorenzo Leuzzi, e lo ringrazio per il gentile invito a presiedere questa celebrazione. Con lui saluto tutti i presenti, le Autorità civili e militari, i sacerdoti, le persone consacrate, i seminaristi e l’intera comunità diocesana.

I Patroni sono i santi chiamati a proteggere le città e le nazioni. Ogni città ed ogni nazione, nella tradizione delle comunità cristiane, così come anche ogni professione, ha il suo santo patrono. Nell’esperienza della nostra fede la vita degli uomini è affidata all’aiuto del cielo e il lavoro umano alla benedizione divina.

I santi patroni, siano essi testimoni che hanno difeso la fede con il sacrificio della vita o maestri di sapienza e operatori di carità che hanno professato le virtù cristiane in misura eroica, sono gli amici di Dio. Questi, nella loro opera di mediazione, ci parlano di Dio e parlano a Dio. Oggi, perciò, siamo chiamati ad ascoltare che cosa ci vuol dire Dio per mezzo di S. Berardo e che cosa noi vogliamo dire a Dio, sempre per mezzo di S. Berardo; è questo l’insegnamento indiretto che attingiamo dalle Sacre Scritture che la liturgia ci propone in occasione della sua festa.

Anzitutto, nella prima lettura, la pagina di Isaia che presenta il racconto autobiografico di un profeta sacerdote, vissuto dopo la fine dell’esilio, che fu anima della ricostruzione di Gerusalemme. La voce del profeta è un messaggio di gioia per il ritorno di Israele al focolare nazionale dopo l’esilio babilonese. Il profeta è mandato a proclamare il lieto annunzio ai poveri, a coloro che hanno come unica sicurezza non il potere politico o le risorse economiche, ma l’abbandono confidente nel Signore (cfr. Sof 3,12-13a).

Quando il popolo ebraico era nella sua terra, ogni 50 anni celebrava la solennità del giubileo. Un araldo suonava il corno ed annunziava che in quell’anno tutti gli schiavi dovevano essere liberati, i debiti condonati, la pace proclamata.

Il profeta si sente quell’araldo e il giubileo che sta per inaugurarsi è annunciatoall’Israele in esilio. Il suo è un messaggio di speranza per i malati, una promessa di liberazione per schiavi e prigionieri, consolazione per poveri ed emarginati. Il rapporto Dio-uomo si trasforma, ritorna ad essere un’alleanza d’amore. Il Signore vuol celebrare con il suo popolo un patto d’amore indissolubile.

Come il profeta, ogni credente deve avere la massima premura per i malati, essere speranza per i prigionieri, liberazione per gli schiavi, carità per i poveri, consolazione per gli afflitti. Per i fratelli più bisognosi la speranza messianica si concretizzerà in una presenza fraterna di chi tende una mano per soccorrere e ancor più in una condivisione per la loro sorte, rendendo così credibile e tangibile l’annuncio di un mondo migliore.

Nella seconda lettura, abbiamo ascoltato come San Pietro esorti i responsabili delle comunità a pascere il gregge, ricordando che esso è di Dio. Non costretti, ma di buona voglia, volendo quello che vuole Dio. E non per un interesse di guadagno, inteso in senso vile, ma con generosità e semplicità. È il dramma di sempre, anche della Chiesa del nostro tempo, per la presenza di pastori che non pascolano il gregge di Cristo.

Questo tema, come ben sapete, è molto caro a papa Francesco il quale, riferendosi al libro Meditazioni sulla Chiesa del gesuita francese Henri de Lubac (1896-1991), elabora il concetto di mondanità spirituale. Nella recente lettera indirizzata al clero della diocesi di Roma egli così la descrive: «Un modo di vivere che riduce la spiritualità ad apparenza: ci porta a essere “mestieranti dello spirito”, uomini rivestiti di forme sacrali che in realtà continuano a pensare e agire secondo le mode del mondo». Ciò accade «quando ci lasciamo affascinare dalle seduzioni dell’effimero, dalla mediocrità e dall’abitudinarietà, dalle tentazioni del potere e dell’influenza sociale. E, ancora, da vanagloria e narcisismo, da intransigenze dottrinali ed estetismi liturgici…», ovvero è dal «cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale».

Nella pagina del Vangelo, i servi che hanno fatto fruttare i talenti ricevuti vengono chiamati servi buoni e fedeli. Perché sono stati fedeli? Noi siamo abituati a concepire la fedeltà come attaccamento al passato. Secondo il Vangelo, invece, la fedeltà, più che attaccamento a qualcosa che sta alle spalle, è attaccamento a qualcosa che sta davanti, nel futuro. Fedeltà è come volgersi verso un progetto che qualcuno ha immaginato per noi e che si svela a noi attraverso le varie situazioni della vita. Se i due servi vengono chiamati fedeli è perché hanno saputo interpretare il desiderio del loro padrone e hanno avuto il coraggio di rischiare.

Il servo chiamato “malvagio” ha interpretato invece la fedeltà nel segno della prudenza e della pura conservazione dell’esistente: non ha saputo guardare avanti, ma si è rifugiato nella difesa e conservazione del passato. La persona veramente fedele, nelle cose di Dio, è perciò chi ama la novità, la creatività, la vita, anche a costo di rischiare. È questa la persona veramente intelligente o anche, per usare un’espressione corrente che ha un chiaro rapporto con la parabola, la persona che ha un vero talento.

Dopo aver ascoltato che cosa Dio ci dice per mezzo delle Sacre Scritture, ci chiediamo: che cosa vogliamo dire noi a Dio per mezzo di san Berardo? È vero che ognuno può parlare a Dio nel suo intimo, può ringraziare e lodare, domandare e sperare personalmente; ognuno può nutrire nella sua interiorità pensieri di fede e di riconoscenza, di timore e di fiducia. Però, ci sono anche pensieri che possiamo fare a voce alta, e che vogliamo condividere con gli altri, per reciproca edificazione.

Quale pensiero a voce alta vogliamo far giungere a Dio per mezzo di S. Berardo? Gli vogliamo parlare della nostra città, della nostra Chiesa locale, della nostra gente, delle sue sofferenze e delle sue gioie, delle sue speranze e delle sue delusioni. Non sempre siamo contenti della società nella quale noi viviamo, e per questo ci adoperiamo con ogni mezzo per migliorarla. Non siamo contenti della situazione del mondo del lavoro, lamentiamo la crisi della famiglia, l’emergenza educativa nella scuola, la scarsa qualità di partecipazione e di responsabilità sociale.

Questa società a volte non ci piace. Ma possiamo cambiarla. Vogliamo raccomandare a Dio i nostri giovani, perché non siano lasciati soli nella ricerca di un futuro di pace e di giustizia. Gli vogliamo raccomandare i nostri malati, perché siano curati con amore e professionalità. Gli vogliamo raccomandare i nostri bambini, perché siano protetti dalla malizia degli adulti, e non siano sacrificati dall’egoismo dei genitori. Gli vogliamo raccomandare i nostri politici, perché operino sempre per il conseguimento del bene comune e lo antepongano agli interessi personali. Gli vogliamo raccomandare questa comunità diocesana, perché sia sempre testimone di fede, speranza, carità; sia sempre una casa accogliente dove ognuno si sente amato, perdonato, incoraggiato. Gli vogliamo affidare la nostra coscienza, perché sia sempre illuminata dalla Parola di Dio e rimanga un sacrario di decisioni giuste.

Cari fratelli e sorelle, il mondo ci chiede un supplemento di anima. Noi cristiani siamo chiamati a dare questo supplemento di ideali e di spiritualità. Ricordiamo: se Dio non costruisce una città, i suoi costruttori si affaticano invano. S. Berardo ci ricorda che, nel costruire la città, l’amore di Dio non è contro l’amore del prossimo, il pensiero del cielo non è la dimenticanza della terra, il tempo dato a Dio non è tempo tolto all’uomo.

Il “dove” della Chiesa è il “dove” del mondo. Perciò, la Chiesa non vuole riservarsi particolari spazi di potere, bensì è pronta a condividere impegni comuni, per alleviare sofferenze, sanare conflitti, difendere i deboli. Nella sua missione di madre e maestra, la Chiesa mette a servizio del bene comune tutte le sue risorse di spiritualità, di trascendenza, di umanità. Insieme, comunità ecclesiale e comunità civile, possiamo e dobbiamo trasmettere alle generazioni di domani, secondo l’insegnamento del Concilio e dei Sommi Pontefici, ragioni di vita e di speranza (GS, 31).

Che il santo Patrono ci aiuti a scrivere pagine di speranza nella storia delle nostre città e seminare germi di futuro in tutti i nostri ambienti. Amen.