TERAMO – Teramo ha accolto calorosamente Moni Ovadia, con il suo “Cabaret Yiddish”. Il Duomo si è trasformato per l’occasione in un palcoscenico dove
“il vecchio ebreo errante Simkha Rabinovich e i musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra hanno invitato il pubblico a seguirli attraverso un viaggio d’esplorazione nella cultura delle proprie origini. Nella miscellanea di musica klezmer
e cliché su nasi lunghi e avidità, semplice ed efficace, il pubblico si è trovato a proprio agio, pur non comprendendo la lingua delle
canzoni, e conoscendo solo una parte della storia ebraica, forse quella più oscura, più triste.
Al centro di una scena nuda, riempita solo da quattro musicisti, Moni Ovadia ha iniziato la sua storia con un sorriso.
Un sorriso antico ed esperto, di chi fin dall’alba dei tempi ha dovuto sfruttare l’ironia per far fronte alle proprie disgrazie e ha saputo
riciclare aneddoti e storielle per forgiare una sagace oratoria in risposta al razzismo.
Tutto nasce da un paradosso che vede impegnato il popolo ebraico guidato dal «povero» Mosé a vagare per svariati anni in un deserto, “attraversabile tranquillamente in sette giorni», senza una terra e con l’esilio costante come essenza stessa della propria cultura. Ma se il deserto non ha confini fisici, il popolo delinea i suoi attraverso la propria lingua, la propria musica, la propria preghiera e i propri
costumi, tessendo una coesione tanto più impressionante quanto più lontani ne sono gli attori, una molteplicità di soggetti sparsi per il
mondo, dall’Europa al Medio Oriente agli Stati Uniti.
Proprio attraverso le singole «storielle» che accomunano per stereotipo ogni ebreo, Moni Ovadia è capace di far ridere il suo pubblico, ma al contempo di fare emergere quel fondo di verità tipicamente popolare per spiegare i cardini della cultura sionista, dal dialogo con il divino aquello con la famiglia matriarcale, passando per il rapporto con il denaro,
con i caratteri somatici, con il razzismo e il confronto con le altri religioni.
Con la cifra stilistica che gli è propria, Moni Ovadia sceglie la leggerezza delle battute più sottili in contrasto con i racconti dei lager e dei soprusi,lasciando grande spazio alla musica, in cui persino il testo diviene purasonorità. Passando senza soluzione di continuità dal fiume di parole al canto salmodiante, immerge la platea in una festa Yiddish coinvolgente,
colorata nonostante l’effettiva sobrietà della scena, alla quale partecipanotutti i personaggi-tipo: l’emigrante povero che riesce a rifilare rotoli di spago a un razzista della Virginia, l’avido rabbino che polemizza con dio perché gli ha fatto trovare un tesoro proprio di sabato, e si parla di ebrei polacchi, americani, russi e tedeschi, di commercianti, di sarti, di analisti e rabbini, tornando così sui passi di «quel popolo eletto» sparso per il globo, ma
unito dalla propria mastodontica cultura.
Grazie all’assessorato alla cultura di Teramo, e a quanti hanno contribuito a regalarci uno sguardo nuovo sul mondo ebraico.”
Luciana Del Grande