45 anni fa la strage di Acca Larenzia, una tragedia rimasta ancora senza colpevoli. È una ferita mai rimarginata perché per Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni non c’è stata nessuna giustizia. Onoriamo la memoria di questi tre giovani innocenti, vittime del terrorismo e della violenza politica, e continuiamo a chiedere che sia fatta piena luce su una delle pagine più buie della nostra storia nazionale. Solo in consigliere e capogruppo regionale di Forza Italia Mauro Febbo ricorda quei giorni.
Acca Larenzia fu anche il punto di non ritorno per la storia della destra italiana. Una ferita mai rimarginata, una tragedia rimasta senza colpevoli. Nessuno ha ancora pagato per quelle morti. Morti assurde, frutto della perversa ‘dottrina’ degli anni di Piombo. Con i ragazzi di destra obiettivi sensibili soltanto perché dalla parte sbagliata. Ragazzi innocenti. Giovani senza un nome finché non ebbero la sventura di restare uccisi dall’odio ideologico. In quegli anni funzionava così. Sono le 18,30 del 7 gennaio 1978, fuori è già buio ormai da diverse ore. Cinque giovani escono da quella che allora era una delle sezioni romane del Movimento Sociale Italiano, in via di Acca Larenzia, quartiere Tuscolano, per fare un po’ di volantinaggio per il prossimo concerto della band «Gli amici del vento», uno dei pochi gruppi di musica alternativa «di destra» allora in circolazione. I cinque ragazzi facevano parte del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del partito da cui bisognava partire – come del resto allora avveniva in ogni altro partito – se si voleva essere un «militante» degno di questo nome.
Dopo pochi secondi dall’uscita, una pioggia di proiettili travolge il gruppo di giovani; pallottole provenienti da armi automatiche, quelle che di solito non lasciano scampo. A fare fuoco un commando di cinque o sei persone, difficile contarle in mezzo a quel frastuono di spari ed urla. Uno dei giovani militanti, Franco Bigonzetti, 20 anni, iscritto al primo anno di Medicina e chirurgia, muore sul colpo. Altri tre militanti, due illesi e uno colpito ad un braccio, riescono miracolosamente a rientrare nella sede del MSI e a chiudere la porta alle loro spalle, sfuggendo agli assassini che ancora non sono andati via. Manca il quinto del gruppo, il diciottenne Francesco Ciavatta: non è a terra, fortunatamente, ma nemmeno con gli altri al sicuro all’interno della sede di partito. Francesco, infatti, è ancora in strada e sta cercando di fuggire disperatamente dai suoi assassini, correndo a perdifiato sulla scalinata che si arrampica di fianco alla sezione del partito. Ma una pallottola, l’ennesima sparata dal commando, lo raggiunge dritto alla schiena; morirà poco dopo in ambulanza. Due ragazzi, uno di venti e uno di diciotto anni, sono stati ammazzati per strada, a freddo. È chiaramente un agguato politico, come troppi ne avvenivano in quegli anni. Anni di piombo.
Le ore successive al doppio omicidio sono dense di sgomento e rabbia, in aumento man mano che la notizia correva lungo le strade della Capitale; alla spicciolata gruppi di persone si ritrovano fuori la sede del MSI fino a diventare una folla sempre più difficile da gestire. E infatti, con l’arrivo della Polizia, iniziano fatalmente gli scontri tra i militanti e le forze dell’ordine, perché il sangue versato quel giorno non era ancora stato abbastanza. Pugni, calci, bastoni, manganelli. Poi, spari di pistola. I primi in aria, l’ultimo si pianta nella fronte di Stefano Recchioni, diciotto anni, militante della sezione MSI di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Morirà anche lui dopo due giorni di agonia. Il colpo che uccise Recchioni è stato oggetto di numerose indagini e perizie balistiche nel corso degli anni, ma ancora oggi nessuno sa dire con certezza chi, quando e perché sparò il proiettile. Un «mistero», questo, che si aggiunge ad un altro, sempre riguardante la tragedia di Acca Larentia, anch’esso mai sciolto davvero: quello della mitraglietta Skorpion utilizzata dagli assassini durante l’agguato, rinvenuta nel 1988 in un covo delle Brigate Rosse a Milano. In seguito ad un’interpellanza parlamentare del 2013, si è scoperto che l’arma fu inizialmente acquistata legalmente nel 1971 da un famoso cantante italiano e poi rivenduta 6 anni dopo ad un commissario di Polizia, senza però riuscire a svelare come da lì arrivò nelle mani degli assassini.
La prima rivendicazione dell’attentato, invece, arriva qualche giorno dopo l’agguato, con il ritrovamento di una cassetta audio accanto ad una pompa di benzina, in cui una voce leggeva un comunicato a nome dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale e che si concludeva con la frase «abbiamo colpito duro e non certo a caso». Molto dopo, nel 1987, grazie alla confessione di una pentita, si arrivò finalmente ad individuare cinque responsabili per la strage di Acca Larentia, tutti militanti di Lotta Continua e tutti accusati per il duplice omicidio. Di quel giorno resta una targa commemorativa, il ricordo di tre giovani morti troppo presto e la speranza di essersi lasciati davvero alle spalle quegli anni terribili.