Oggi, Domenica 2 ottobre 2022, 150 milioni di brasiliani sono chiamati alle urne per scegliere il prossimo presidente della Repubblica. A sfidarsi nella corsa elettorale ci sono due big indiscussi della politica del Paese: Luiz Inácio Lula da Silva e Jair Bolsonaro. Il primo, 76 anni, ex sindacalista, vecchio leader del Partito dei Lavoratori, ha già guidato il Brasile nei primi anni del terzo millennio: Lula ha mantenuto il potere dal 2003 fino al 2011, quando ha passato poi il testimone alla sua compagna di partito, Dilma Rousseff. Il secondo, Jair Bolsonaro, 67 anni, è invece l’attuale presidente del Paese sudamericano che chiamano il Paese verde-oro, dai colori della bandiera. E in effetti in pochi altri luoghi al mondo la difesa del verde vale quanto l’oro. Perché il 68 per cento dell’Amazzonia si trova in Brasile. La più grande foresta pluviale della Terra custodisce il 26 per cento delle acque dolci e il 75 per cento della biodiversità di tutto il nostro Pianeta. Immagazzina 173 miliardi di tonnellate di carbonio. E di tutte le specie d’alberi presenti in natura, più d’un quinto cresce qui. Preservare il Brasile è una questione d’equilibrio della Terra. Dunque è un affare anche nostro sapere chi governerà questo immenso polmone verde.
Il 2 ottobre si vota: 156 milioni di brasiliani sceglieranno il loro trentanovesimo presidente. Dal 1988, quando finì il ventennio della dittatura militare, è la nona volta. Ma in un Paese che pure ha vissuto una storia fatta di golpe e d’impeachment presidenziali, non s’era mai visto uno scontro così duro fra i due principali candidati: il presidente uscente Jair Bolsonaro, di destra, che alcuni sondaggi danno al 38, contro l’ex presidente di sinistra Luiz Inàcio Lula de Silva, semplicemente Lula, al 51. Per vincere serve il 50 per cento più uno dei voti, ma in corsa ci sono anche un candidato laburista accreditato al 5 per cento e un conservatore, al 3. L’eventuale ballottaggio è fissato al 30 ottobre.
Bolsonaro, 67 anni, tre matrimoni e cinque figli – uno dei quali è stato il parlamentare più votato nella storia del Brasile – è un ex capitano dell’esercito che elogia i bei tempi della giunta dei generali e ha nominato ministri otto militari. Lula è un ex sindacalista che al governo portò pure qualche nostalgico della rivoluzione russa. Dai diritti Lgbt all’uso delle armi, dall’assistenza sociale alla tortura, i due sono divisi su tutto. Lula rinfaccia a Bolsonaro, che s’è dichiarato no-vax e negazionista, d’avere causato oltre 860 mila morti di Covid con le sue scelte genocide. Bolsonaro accusa Lula, finito in carcere per una storia di tangenti, di nepotismo e d’avere guidato il governo più corrotto della storia brasiliana. È così da anni. Ma stavolta c’è un tema più urgente d’altri, su cui si gioca la sfida: la difesa dell’ambiente.
Bolsonaro s’è battuto per i tagli delle tasse, per le privatizzazioni delle imprese di Stato, per la liberalizzazione dei servizi sociali. Molto vicino ai superconservatori americani, ha fatto capire che in caso di sconfitta è pronto a denunciare i brogli con una marcia su Brasilia simile all’assalto al Campidoglio di Washington, quello di chi contestava l’elezione di Biden. È soprannominato il Trump dei tropici e le sue posizioni spiegano il perché: in soli quattro anni da presidente, Bolsonaro ha cancellato 6,725 milioni di ettari d’Amazzonia, lo 1,7 dell’intera superficie. L’anno scorso, il peggiore, è sparita una parte di foresta grande tredici volte New York. E dalle foto satellitari dell’Istituto nazionale di ricerca spaziale risulta che nell’ultimo decennio la deforestazione è aumentata del 78 per cento, mentre gli incendi, sia di origine dolosa che innescati dal cambiamento climatico, in questi nove mesi del 2022 sono stati di più che in tutto il 2021.
Il presidente uscente s’è sempre schierato contro i 300 gruppi indigeni della foresta – una volta ha detto che fu un grave errore non averli sterminati come gli indiani d’America – e ha mantenuto la sua promessa di non concedere loro nemmeno un centimetro di terra. Adesso in Amazzonia prosperano trafficanti di droga, minatori illegali, allevamenti selvaggi, caccia senza controllo. L’ong Earthsight ha denunciato come le due più grandi aziende brasiliane che esportano soia nell’Unione europea, la Bunge e la Cargill, facciano affari su immense aree disboscate che fino a cinquant’anni fa appartenevano agli indigeni Guarani Kaiowa. Nel 2010, i giudici brasiliani hanno stabilito il diritto dei Kaiowa di tornare nelle loro terre, ma il governo non ha mai applicato la sentenza. Bolsonaro è contrario agli accordi di Parigi per ridurre il riscaldamento globale, ha abolito il ministero dell’Ambiente, vorrebbe rivedere l’articolo 231 della Costituzione che riconosce i diritti degli indios, non vuole vincoli per chi costruisce centrali idroelettriche sui fiumi amazzonici o sfrutta le miniere in aree protette, sogna un’autostrada che attraversi l’Amazzonia. La sua campagna elettorale è finanziata dai fazendeiros, i latifondisti che in Brasile danno lavoro a 20 milioni di famiglie, rappresentano il 24 per cento del Pil, sono una potente lobby che controlla quasi il 40 per cento del Parlamento. Adesso in Amazzonia prosperano trafficanti di droga, minatori illegali, allevamenti selvaggi, caccia senza controllo.
Ha dieci anni più dell’avversario, da bambino faceva il lustrascarpe, da giovane operaio perse il mignolo d’una mano in una pressa e ha una storia tutta nei sindacati. Due mogli, quattro figli, ha sposato la sociologa che l’ha assistito in carcere. Quand’era presidente, fra il 2003 e il 2011, gli contestarono d’avere messo vecchi trotzkisti al ministero delle Finanze e alla Banca centrale, facendo precipitare il Real e la borsa. Il settimanale The Economist lo ha descritto però ideologo in patria e negoziatore pragmatico all’estero: è riuscito ad avere buoni rapporti sia col populista venezuelano Hugo Chavez, sia col presidente americano George W. Bush. Ha varato con successo campagne per la lotta alla fame, in un Paese dove venticinque milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno, e per l’istruzione dei più poveri (un brasiliano su dieci è analfabeta). Nei suoi anni al potere, ha fatto volare la finanza e portato il Brasile nel gruppo dei Paesi con Pil in maggiore crescita, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Il Pil procapite dei brasiliani è aumentato di 8.447 dollari.
Lula è stato incarcerato e condannato due volte per avere ricevuto tangenti dall’ente petrolifero Petrobras. S’è sempre proclamato innocente e ha accusato il suo primo giudice, poi nominato da Bolsonaro ministro della Giustizia, d’avere complottato: “Sono stato arrestato perché tu potessi essere eletto presidente al mio posto!” ha rinfacciato all’avversario nell’ultimo faccia a faccia tv. Al termine delle vicende giudiziarie il processo è stato annullato per una questione di giurisdizione e perché il giudice non era stato imparziale. Dopo 580 giorni di prigione s’è potuto ripresentare alle elezioni. I suoi avversari l’accusano d’usare le politiche sociali per controllare i voti delle fasce più deboli. Lula ha sempre unito le politiche sul welfare ai temi ambientali: nei suoi otto anni di presidenza la deforestazione dell’Amazzonia s’è ridotta dell’80 per cento, e i fazendeiros lo odiano per le sue politiche in difesa dei contadini e degli indios. In campagna elettorale Lula ha detto che un effetto collaterale della guerra in Ucraina è quello d’avere fatto dimenticare la lotta al cambiamento climatico, e di favorire le politiche di politici come Bolsonaro che, pubblicamente, ha esortato i fazendeiros ad appiccare gli incendi nella foresta amazzonica e gli imprenditori a violare i divieti sulle emissioni. A settembre l’inquinamento in Brasile è risultato il più alto degli ultimi vent’anni. Fu alla Conferenza Onu sull’ambiente di Rio de Janeiro, nel 1992, che per la prima volta s’elaborò il concetto di sviluppo sostenibile. Io faccio il tifo per Lula.