La tragedia che ha cambiato per sempre la storia dell’Occidente lascia dietro di sé più di tremila morti, un numero incalcolabile di vittime indirette e nessun vero colpevole sul banco degli imputati. Ventuno anni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 è ancora bloccato il processo ai terroristi considerati le menti dell’attentato. Triste verità ma è così. Perché ? Chi non vuole questo processo? Quali verità non devono essere rivelate ? Quali misteri ci sono dietro “i ritardi”?

Sono trascorsi più di 20 anni dal giorno che ha cambiato il mondo, quello in cui chi era sufficientemente grande ricorda esattamente che cosa stesse facendo nel momento in cui lo raggiunse la notizia dello schianto contro la prima Torre. Da allora tutto è cambiato. Fu il segno che la guerra era arrivata nel cuore dell’opulenza. Intanto nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo sono ancora bloccati i processi a Khalid Mohammed e altri quattro uomini considerati le menti degli attacchi. Rinvii che per i parenti delle vittime significano la mancanza di risposte a domande che hanno 21 anni.  Quindici dei 19 attentatori erano sauditi e, anche se formalmente non sono mai state accertate le responsabilità del governo di Riad, in tanti accusano l’Arabia Saudita di essere terreno fertile e rifugio sicuro per i terroristi.  I rapporti economici e di “amicizia” tra Stati Uniti e Arabia Saudita, considerato il Paese culla della maggior parte dei terroristi delle Torri Gemelle,  fanno si che la pagina più buia della storia americana per molti non è stata ancora definitivamente voltata. Nel 2009 l’allora presidente Barack Obama annunciò che il terrorista Mohammed sarebbe stato trasferito a New York per essere messo sotto processo in un tribunale federale di Manhattan. Se condannato, colui che è considerato l’artefice del peggior attentato della storia americana, rischierebbe la pena di morte. Ma da allora nulla è accaduto. Khalid Mohammed e altri quattro uomini membri dell’organizzazione fondamentalista islamica Al-Quaida sono ancora oggi detenuti nel carcere di massima sicurezza a Guantanamo, territorio in dotazione agli Stati Uniti sull’isola di Cuba, in attesa di un giudizio, le cui udienze tuttavia vengono cancellate o continuamente rinviate. L’ultima battuta d’arresto è arrivata il mese scorso, quando sono state cancellate le udienze preliminari previste per l’inizio dell’autunno. Senza una reale motivazione.

Per le famiglie delle migliaia di vittime morte nello schianto di quattro aerei di linea contro (le Torri Gemelle del World Trade Center a New York, la sede del Pentagono ad Arlington e Shanksville, in Pennsylvania) un processo potrebbe essere il momento della verità, per dare risposta alle ultime domande rimaste insolute. In caso di condanna, il kuwaitiano Mohammed, che nel 2007 si è dichiarato responsabile dell’operazione dalla A alla Z, rischia la pena capitale. Allora cosa intende dire James Connell, l’avvocato, quando scrive sulla stampa che “le parti stanno ancora cercando di raggiungere un accordo preliminare”. Perché il processo è fissato davanti a un tribunale militare, piuttosto che nel normale sistema giudiziario statunitense

E’ vero che Mohammed è stato sottoposto a waterboarding (ovvero la tecnica dell’annegamento controllato) per 183 volte. E le sue stesse confessioni, estorte sotto tortura, potrebbero essere completamente invalidate. E’ vero che è stato lui a far prendere prima Osama bin Landen (2011) e adesso Ayman al-Zawahiri ? E’ questo il patto ?

Ogni anno, l’11 settembre, un intenso fascio luminoso si accende proprio dove una volta sorgevano le alte torri per ricordare le vittime di quell’attentato. Ancora oggi, attraversato il Washington bridge e arrivati a Manhattan a centinaia di metri da Ground Zero ci sono le macerie. Ancora oggi è difficile realizzare cosa realmente accadde. L’11 settembre 2001 è stato un evento della nostra vita che ha segnato uno spartiacque, un prima e un dopo. Un momento in cui abbiamo acquistato nuove consapevolezze, dopo il quale siamo ripartiti un pò diversi. Perchè una ferita così grande lascia in tutti una cicatrice, in ogni angolo del mondo.

Siamo tutti americani titolarono tanti giornali di ogni latitudine, e davvero ci sentivamo tutti così, coinvolti in quello che era un attacco alla convivenza civile, e che molti vollero dipingere come uno scontro di civiltà. Dopo ventuno anni di guerra in Afghanistan, dopo l’invasione dell’Iraq, dopo Guantánamo, dopo l’Ucraina, le migliaia di vittime collaterali dei bombardamenti e dei droni, dopo le rivelazioni di WikiLeaks e Julian Assange, quel sentimento si è senza dubbio attenuato, complici anche le scelte compiute dai presidenti che si sono succeduti a Wasghington da quel fatale 11 settembre. In parte ondivaghe, a volte alternative, ma sovente in grado di mettere in discussione la verità.