La morte le girava attorno fin dal settembre 1980 quando Caponnetto la chiamò per far parte del pool antimafia di Palermo. La morte le girava attorno perché invece di girarsi dall’altra parte come tanti suoi colleghi, invece di prendere piccioli come tante divise, lei – come raccontò Paolo Borsellino con autoironia – si era messo a fare la testa di minchia e invece di svuotare l’oceano con un cucchiaino provava a battere la mafia con la legge. Alla fine dottò è morto, nella sua Palermo che non l’amava. La mafia ci aveva già provato all’Addaura con un attentato nel 1989 mentre indagava su droga, armi, il “sacco” di Palermo e gli imprenditori del Nord che riciclavano soldi sporchi. Insomma dopo il maxi processo con 460 imputati e 428 condanne, visto che proprio non la voleva smettere la morte le girava attorno. E fu isolato, calunniato e delegittimato da “menti raffinatissime”. E la morte sempre li. Lei fu lasciato solo davanti ai suoi carnefici . Si scrisse di “cultura del sospetto” e “oltranzismo antimafioso” . Lei e Paolo costretti a vivere come latitanti, mentre i latitanti veri vivevano tranquillamente, nel centro di Palermo. Lei e Paolo costretti a l’isolamento all’Asinara. Lei che disturbava con le sirene della scorta. Lei e Paolo niente finestre aperte. Obbligo di comunicare le uscite. Minacce, polemiche, critiche, accuse, Sconfitte. Umiliazioni. Per chi ? Per cosa ? Per sentirsi dire da Leonardo Sciascia che lo facevate per fare carriera ? Lei e Paolo due uomini soli in perenne corsa contro il tempo. Che sapevate di dover morire per le scelte che avevate fatto. Voi, la storia più vigliacca d’Italia. E da quel giorno mi chiedo: ne valeva la pena ?
E così, visto che non mollava, alla fine è morto fra le lamiere di un’auto blindata. E’ saltato sopra 500 chili di tritolo che hanno squarciato la terra. E’ morto insieme ai compagni Antonio, Rocco e Vito che per dieci anni l’avevano tenuta in vita coi mitra in mano. E’ morto con sua moglie Francesca. Alla fine è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992. Un boato enorme, un tuono, come un vulcano che scarica la sua rabbia. Per trenta interminabili secondi il cielo rosso di una bella sera di inizio estate siciliana è diventato nero: ne valeva la pena? Sono volate in alto le automobili corazzate, sprofondate in una voragine, sparite sotto le macerie: ne valeva la pena? Lei signor giudice è morto e con lei muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta: ne valeva la pena? Sull’autostrada Trapani-Palermo i boss di Cosa Nostra hanno in un attimo spezzato la sua vita, straziato il suo corpo, azzerato il simbolo della lotta alla mafia: ne valeva la pena
Oggi potrebbe essere un vecchio nonno ottantenne, famoso e benestante, che se ne va in giro a fare conferenze. Chi l’ha conosciuta mi racconta che portava dei baffetti sale e pepe. Era simpatico. Le piaceva la buona compagnia. Aveva un eloquio, immerso in un accento siciliano d’altri tempi. Riscrisse la storia di Palermo e dell’Italia tra contiguità e compiacenze culturali, tra intrecci economici e salotti, tra occhi chiusi e bocche cucite e insufficienze di prove. Tra tanfo di complicità e cocaina che girava nei palazzi di giustizia. Fino a quando arrivò dal ventre storico dell’isola, dal quartiere popolare Kalsa di Palermo, una nuova generazione di giudici che avrebbe costretto tutti, ma proprio tutti, mica solo i giudici, a schierarsi. O di qua o di là. I loro nomi erano Paolo e Giovanni. Ora tocca a noi dimostrare da che parte stare e che “siamo Capaci”. Solo così questo 23 maggio sarà un giorno di speranza e diventerà progetto per un futuro migliore.