Alle 21.37 di sabato 2 aprile 2005, al primo vespro della Domenica della Misericordia, si spegneva dopo qualche giorno di agonia, Giovanni Paolo II. Indiscusso protagonista dell’ultimo quarto di secolo del Novecento, primo Papa proveniente dell’Est Europa, eletto nel 1978 quando ancora il Vecchio Continente era diviso in due dalla cortina di ferro. Ancora oggi tutti ricordano bene quella morte drammatica vissuta in diretta TV, seguita ora per ora da centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Un pontificato lunghissimo, pieno di sfolgorante luce, icona delle grandi sofferenze del secolo scorso, incarnato da un figlio di una nazione che fu martire martire ed ancora lo è  – la Polonia – che aveva sperimentato nella sua carne gli orrori del nazismo e del comunismo divenendo con Karol  “il grande” anche simbolo di un’Europa in grado di ritrovare unità e nuovi più larghi confini. Il Papa dei record, il globe-trotter di Dio, il vescovo di Roma che ha trascorso una parte significativa del suo pontificato in giro per il mondo, il Pontefice capace di radunare folle oceaniche, in grado di rianimare una Chiesa che a stento stava uscendo dalla crisi post-conciliare, il Papa dall’umanità traboccante, dai gesti disarmanti…

Questa però è solo la cronaca dell’ultimo giorno di Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005: la storia lui l’aveva già scritta in 27 lunghi anni a combattere come una fiera. Non a caso non passarono nemmeno poche ore che qualcuno gli attribuì il titolo di Magno, che la Chiesa riserva ai più grandi: Gregorio, che riempì di sé e di Cristo il vuoto dell’Alto Medioevo; Leone, che dette al vescovo di Roma primazia su quello di Costantinopoli e, soprattutto, fermò Attila sulle rive del Mincio.

Anche Wojtyla bloccò i suoi unni, che nel tardo XX secolo si chiamavano Comunisti e venivano anch’essi dalle steppe dell’Asia centrale. Come un vero santo altomedievale, ci aveva vissuto in mezzo prima di giungere a Roma e divenire un Difensore della Fede.  Li conosceva bene, quindi, nei loro punti di forza e nelle loro debolezze. Sfruttò le seconde e comprese i primi, perché per lui il comunismo era il Male come lo era stato il nazismo conosciuto da ragazzo, ma l’esigenza di giustizia sociale una legittima richiesta del corpo e dello spirito. Solo che quella era la risposta antropologicamente sbagliata. “Non abbiate paura”, disse a un mondo che all’epoca tremava schiacciata dall’incubo dello scontro atomico (e Francesco non a caso sta ripetendo lo stesso messaggio in questi giorni segnati dalla pandemia di coronavirus). Non abbiate paura, ripetè, “anzi: spalancate le porte a Cristo”. Ecco la risposta antropologicamente giusta. L’unica possibile.

Solo una fede come la sua poteva compiere l’impresa, e infatti la compì. Perché c’è chi con la fede smuove le montagne, ma Karol Wojtyla con la sua fede le montagne le spaccava. La sua agonia fu lunga, e prevista. L’uomo era giovane al momento dell’elezione (56 anni) ma anziano e molto provato al momento di lasciarci. Ventisette anni di pontificato ne fanno il pontefice più a lungo seduto sulla cattedra di Pietro dopo Pio IX e Pietro stesso. Lui, poi, ebbe la vita segnata da un attentato ordito proprio Oltrecortina. Gli unni erano feroci. Tutti lo videro passare nel tempo, in modo non repentino ma percepibile, da una vigoria di scalatore sciatore nuotatore alla decadenza del parkinson, sicché alla fine non poteva nemmeno parlare e la cosa lo tormentò più dello stesso male. Perché di cose al mondo uscito dalla vittoria dell’’89 lui non aveva da dire molte, e magari non tutte piacevoli. L’importanza della parola lui la conosceva benissimo, del resto, e non solo perché era uomo di Chiesa. Giovanni Paolo II, si ricordi, da giovane aveva fatto l’attore e questo lo aveva aiutato a capire l’importanza dell’essere non solo ascoltati, ma prima ancora sentiti, e del colpire chi ti ascolta anche con gesti per l’appunto plateali. Un comunicatore formidabile, con in più un messaggio che a cercarne il paragone non se ne trova uno che sia uno. Alla fine, grazie anche all’aiuto di un maestro dell’arte della comunicazione istituzionale come il suo portavoce, Navarro Valls, era divenuto qualcosa di assimilabile – si parva licet eccetera eccetera – ad un opinion leader, ma molto ma molto più grande, profondo e stentoreo. Lo ascoltavano tutti, lo amavano quasi tutti, lo piansero in milioni.

Quando, alle 21,37 di quel 2 aprile, il papa chiuse gli occhi la reazione emotiva fu a livello mondiale, complici anche i media che nel frattempo avevano perso il gusto della compostezza. Il primo giorno nell’Urbe arrivarono in ottocentomila, il secondo un milione, poi il terzo due e poi ancora quattro e mezzo. SI rammentino le parole del prefetto di allora, Achille Serra: “Roma è stata sottoposta allo stress di un evento il più grande della sua storia, moltiplicato per dieci”. Il prefetto si sbagliava per difetto: i lanzichenecchi erano stati una decina di migliaia, i visigoti del 410 due o tremila, i bersaglieri e le altre truppe italiane a Porta Pia 50.000.  Gli annali riferiscono che, in mezzo a quella massa informe ed emotivamente di uomini, donne, religiosi, suore, vecchiette e giovani che si accalcavano, si spingevano, avevano fame e sete e altri bisogni primari, non si registrò nemmeno una gamba rotta.

Rimangono impresse nella memoria, le immagini di quel funerale. Il vento che sfoglia le pagine del Vangelo ai piedi di un vecchio ormai magrissimo vestito di abiti sacri troppo grandi per lui. Troppo grandi i paramenti, troppo grande la tiara, troppo grandi le scarpe nere che gli restituivano l’aspetto di un contadino a disagio nel vestito della festa.  Ma quest’ultima impressione era sbagliata, perché Giovanni Paolo II in quel momento era già una reliquia, ed il suo cadavere già sembrava il corpo incorrotto di un santo medievale. Il cuore di Giovanni Paolo II è rimasto nelle grotte vaticane, a poca distanza da quello di Giovanni XXIII, soprattutto per un altro motivo. E cioè che un papa non solo è prima di ogni altra cosa vescovo di Roma, ma il suo cuore appartiene al mondo.