Si ferma. Alza gli occhi. Alza la voce E così  il gesuita Jorge Bergoglio entra nella storia: “La guerra è una vergogna. tutto è perso con la guerra”.   Nel Nuovo Testamento, l’apostolo Paolo (5-64 d.C.) scrive: “Cristo nostra pace” (cf. Ef 2,14). Eppure il cattolicesimo romano ha vissuto il confronto e il contrasto con la modernità in una maniera che è lentamente evoluta nel corso della storia. Ci è voluto del tempo perché la pace diventasse la “teologia dei segni dei tempi” di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II.  Solo all’inizio degli anni Sessanta il cattolicesimo si è reso conto che il desiderio di pace era un modo con il quale il Vangelo stesso veniva ripresentato, un punto centrale evangelico, del messaggio stesso di Gesù. Sarà nel 1963 che l’enciclica Pacem in Terris il papa buono Giovanni XXIII inciderà in maniera decisiva su questo tema nei giorni in cui si aveva la sensazione che sull’isola di Cuba il mondo fosse alle porte di una Terza guerra mondiale. Papa Giovanni XXIII moriva poche settimane dopo aver firmato l’enciclica e il suo successore, papa Paolo VI, si ritrovò in una situazione molto diversa. In piena guerra del Vietnam, nel 1965 papa Paolo VI si recò all’Onu per tenere un discorso. E pronunciò la famosa frase “mai più la guerra.

Questo patrimonio del pensiero sulla pace entra molto fortemente nel pontificato di Giovanni Paolo II, che se ne appropriò quando decise, nel 1986, di partecipare all’iniziativa dell’anno della pace delle Nazioni Unite convocando ad Assisi i capi delle principali religioni del mondo. Non si trattava di un gesto usuale e in precedenza non c’era mai stato nulla di simile. Si trattava, per così dire, di una forma di ricezione del Concilio Vaticano II e molto impegnativa, molto forte. Per questa ragione, il papa polacco si oppose per due volte agli Stati Uniti d’America, nelle due guerre rispettivamente dell’Iraq del 1990-1991, per la liberazione del Kuwait, e quella dopo le stragi dell’11 settembre 2001 a New York, cercando di ricordare in maniera molto forte– e la seconda volta lo fece con un accento personale ancora più forte – ciò che costituiva il suo convincimento, la percezione che coloro i quali avevano vissuto la seconda guerra mondiale ricordavano, e cioè che l’inizio di una guerra non annuncia mai le conseguenze imprevedibili.

Arriviamo così a papa Francesco – “Nomen est omen” -che inizia il suo mandato con un messaggio molto forte contro l’intervento militare in Siria. Un messaggio di cui non abbiamo percepito fino in fondo l’importanza, l’audacia, la novità e il coraggio, perché nel momento in cui il papa è intervenuto tutto sembrava essere pronto per un’azione armata contro la Siria. Il papa fin dai primi giorni ha dato prova di una grande forza spirituale della Chiesa cattolica, una forza che è stata capace di fermare questo intervento militare. E ha dato il messaggio che su questo tema il cattolicesimo romano non è più disposto a farsi trascinare. Inoltre, egli ha sottolineato che nessuno più è in grado di trascinarlo dentro gli equivoci della propaganda bellica.

Jorge Mario Bergoglio ha una singolare e straordinaria capacità di comunicare il Vangelo come tale, per quello che è realmente. Anche nella sua teologia della pace non sono le dimensioni internazionali che contano. Queste dimensioni ci sono, certamente, affiorano nei suoi scritti. Si deve pensare, ad esempio, al fatto che siamo di fronte ad un uomo che ha rovesciato il modo classico di concepire il pianeta, non pensandolo più secondo le categorie di “ovest” e di “est”, come facciamo noi europei, ma pensandolo con le categorie di “nord” e di “sud”. Si tratta di categorie nuove anche per la politica vaticana. Tuttavia, egli non si ferma a questo. Tutto rimane secondario rispetto ad un’esigenza semplice di comunicazione del Vangelo. Questa centralità del Vangelo, nella sua predicazione e nella sua figura, mi sembra un grande contributo che egli offre anche al discorso sulla pace e alle relazioni internazionali. Non fa semplicemente delle affermazioni su quello che è il tema della pace, ma impegna i cristiani ad un gesto personale e non soltanto all’enunciazione di una posizione, di un punto di vista. In fondo, era stato così anche con Giovanni Paolo II. Questa linea di tendenze e di strategie è molto importante perché può coinvolgere e deve coinvolgere gli episcopati che, per esempio, come per la giornata di preghiera per la pace, hanno seguito le volontà del papa ma con un entusiasmo non sempre così visibile.

Francesco è il primo papa che non ha mai celebrato la messa di San Pio V, che non ha mai indossato la talare, che non è stato né ordinato sacerdote né consacrato vescovo prima del Concilio Vaticano II, e che non è mai stato studente di una neoscolastica asfittica – come quella che si insegnava in certi seminari negli anni Venti, Trenta, Quaranta, rispetto alla quale emanciparsi costituiva una grande sfida dal punto di vista teologico. E’ il suo modo di essere cristiano, e non l’essere cristiano che rede Francesco forte, ammirato, ascoltato, credibile. Per questo oggi Francesco è ritenuto l’unico uomo in grado di fermare la guerra con le sue sole parole e preghiere. Ciò suscita una “preoccupante ammirazione” al di fuori dei confini della Chiesa, da quando non è più una sorta di anziana petulante protagonista della scena internazionale che domanda cose che nessuno poi fa nella realtà.