“Non tutto andrà bene”, scriveva il drammaturgo cecoslovacco leader di “Carta 77”, Vaclav Havel alla moglie Olga dal carcere in cui fu rinchiuso per 4 anni. E continuando annotava: “Per liberare il mio popolo devo accettare la possibilità che tutto, o almeno la maggior parte delle cose, vada male». Di fronte alla difficile situazione nella quale ci troviamo in cui si chiama guerra il chiodo che scaccia l’altro chiodo pandemia, tra una tragedia che allontana un altro tipo di paura, l’ottimismo superficiale è pericoloso perché rischia di non reggere la prova dei fatti, rovesciandosi poi repentinamente nel suo contrario. Quello che ci serve è piuttosto il coraggio di guardare la realtà così come è, nella sua durezza, senza però farsi schiacciare da essa. La speranza così diventa una virtù che richiede audacia e fortezza. Realismo e visione.
Sono giorni di silenzio e attesa. La paura di un gesto folle che trasformi un conflitto in guerra atomica ci assale. La paura assume nel quotidiano un valore ancora più intenso dopo due anni di coronavirus. Siamo infatti sospesi. Tra il dolore delle ultime settimane e la tensione verso un futuro di cui non riusciamo ancora a vedere né i tempi né i contorni. Se non vogliamo farci travolgere dall’angoscia che pure abita i nostri cuori – e soprattutto dei giovani – non accontentiamoci di consolazioni melliflue e lettura superficiali del presente. Diciamolo chiaramente: non è andato tutto bene. Ma coltiviamo la speranza dell’invisibile. Davanti alle bollette impazzite, davanti all’assalto ai supermercati che torniamo a vedere in alcune città, il governo e l’Europa stanno prendendo decisioni importanti circa le risorse finanziarie necessarie da mettere in campo per far fronte ai prossimi mesi. Ma le risorse economiche, pur necessarie, da sole non basteranno. Diciamolo chiaramente: non è andato tutto bene. “La macchina che era ripartita” rischia di fermarsi nuovamente.
Quello che ci aspetta è l’attraversamento di un deserto: tornano ad aumentare disoccupazione e povertà, frustrazione e fatica, tensioni e conflitti. La ripresa torna ad essere lenta e modulare con una socialità ancora ridotta. Il problema sarà quello di non farsi travolgere da tutte queste difficoltà. Diciamolo chiaramente: non è andato tutto bene.
Ancora Havel ci aiuta: “la speranza”, scrive in un altro passo, “non si limita alla semplice sopravvivenza. Ma è capace di trasfigurare la realtà. Trasformando la difficoltà in occasione di vera trasformazione”. Così è per noi oggi: la sfida è quella di riuscire finalmente ad affrontare una serie di questioni che ci portiamo dietro da anni: la lotta agli sprechi e alla corruzione, un investimento reale sui giovani, sulla scuola, sulla sanità, l’introduzione di nuovi modi di produzione più sostenibili, una nuova centralità del lavoro. E tanto altro ancora.
Diciamolo chiaramente: non è andato tutto bene. Siamo rimasti uguali: altro che resilienza, abbiamo reagito come il granito incassando le botte con forza e poi restando immobili, fissi, senza cambiar niente delle cose davvero importanti. No, decisamente non è andato tutto bene. E non siamo migliori di prima. Purtroppo. Ma la speranza dell’invisibile – che costituisce la trama profonda di queste giornate “sospese” – ci aiuti a disegnare il ponte che dobbiamo costruire per raggiungere l’approdo che tutti desideriamo. Ma perché ciò possa accadere, c’è bisogno fin d’ora di sapere che quel ponte non si edificherà da solo, ma dovrà appoggiarsi sulle spalle di uomini e donne disposte a sostenerlo. Tutti uniti nella tensione verso una grande impresa comune. Coltiviamo, allora, la virtù della speranza, tanto necessaria per reggere questo tempo e le sue tensioni.