C’è una sub-cultura, un pò fascista e un pò mafiosa, su cui le classi dominanti fanno leva quando serve e che fanno finta di non vedere fino a quando una videocamera non le cattura e le restituisce alla coscienza del mondo. I giorni di Genova furono 100 ore di follia assoluta della democrazia italiana. Non servono iperboli descrittive per raccontare i fatti. Se non si accetta la tesi dell’umiliante fallimento e della manifesta incapacità, non resta spiegazione per un’operazione di macelleria sociale ordinata da un sistema che voleva sopprimere alla radice il dissenso, un dissenso che stava dilagando. Faceva paura la bellezza e la radicalità di quel popolo ribelle: assomigliava davvero al fanciullo della fiaba che esclama “il Re è nudo”.
La politica, quasi tutta, ha esorcizzato i fantasmi di quella mattanza, si è accontentata di spiccioli di verità, per viltà o per complicità non ha voluto fare i conti con una vicenda che inaugurava emblematicamente un nuovo secolo, nel segno della chiusura ermetica all’ascolto delle domande di libertà, di dignità, di giustizia, di pace che il movimento no-global aveva trasformato in un’immensa contestazione popolare e in una nuova rivolta generazionale.
Riaprire una discussione, ricostruire i fatti ben oltre l’insopportabile banalizzazione di chi spartisce colpe in parti uguali tra manifestanti e polizie, di chi non c’era e parla replicando un copione sempre uguale di falsificazione della storia di chi ha provato a rovesciare l’ordine del discorso, per cercare le tracce di qualcosa di osceno che resiste e si rinnova, che cova le sue uova di serpente nella retorica , che vive nella difesa a oltranza dei carnefici, che rivendica nei propri riti una eredità fatta di abusi e impunità, che esercita il monopolio della violenza contro le leggi, anche contro le leggi.
Io, come tanti altri, ho impiegato anni a elaborare lo spavento senza fine di quei giorni, la sensazione di non avere una via di scampo, quel logorante collettivo sentimento di vulnerabilità dinanzi all’arbitrio delle forze dell’ordine (l’ordine del disordine) e alla complementare violenza dei blackblock.
Mi sono tenuto dentro un urlo soffocato per anni ad ogni manifestazione temendo il peggio. Ora che quattro lustri sono passati e che il G8 del 2001 può passare alla Storia, ora che nessuno può avere remore a dire la verità, o meglio ad ammetterla, sento il bisogno di liberare la mia angoscia con parole secche, durissime, limpide. Necessarie per raccontare la verità, per quanto possibile, di quell’evento, tragico e assurdo.
Vent’anni fa c’era anche in Italia il movimento noglobal che discuteva di pacifismo, ecologismo, acqua pubblica, fonti di energia, approccio diverso alla povertà e alla diversità, dell cambiamento – necessario – nello stile dei consumi. E per il summit italiano degli Otto Grandi decine di migliaia di ragazzi arrivarono da ogni parte del mondo per esprimere il proprio dissenso (oltre alle centinaia di migliaia di italiani). Fu solo grazie a questo, in primis (ma anche alla prepotente irruzione della rete, per la prima volta, nel racconto dei fatti, ricordare Indymedia) che delle violenze compiute da polizia e carabinieri a Genova si parlò immediatamente in tutto il mondo, oltre la sordina del giornalismo mercenario italiano suddito inginocchiato ai partiti. A Genova morì un ragazzo, Carlo Giuliani; durante i cortei autorizzati del 20 e del 21 luglio 2001 le forze dell’ordine colpirono ripetutamente migliaia di giovani, famiglie pacifiche, indiscriminatamente, non agendo sufficientemente contro i cosiddetti black bloc, di cui si sapeva tutto, a cui nessuno chiese conto nei giorni in cui la città fu messa a ferro e fuoco e nemmeno dopo, con i Grandi ignari, o quasi, nel fortino della zona rossa. L’elenco degli errori, delle sottovalutazioni, delle lacerazioni delle false comunicazioni usate per la repressione è infinito.
Chi oggi ha vent’anni avrà sentito parlare dell’irruzione notturna della polizia alla scuola Diaz o delle torture di Bolzaneto . Il massacro dura mezz’ora e ne escono 95 feriti. Teste rotte, braccia rotte, dita rotte, costole rotte, tagli al cranio, alle braccia, al volto, colpi allo stomaco, ai testicoli, al seno, al naso. Grondano sangue, sono tumefatti, alcuni sono gravi. 100 ore di follia. Per le ragazze e i ragazzi per bene che erano li per chiedere un mondo migliore e che sono stati perseguitati; e per i poliziotti e i carabinieri che hanno cercato di fare il loro dovere e che sono stati infangati dalle colpe dei loro capi, pedine inconsapevoli di un gioco deciso da altri. Tutti maledissero il G8 e quei giorni incandescenti nelle strade di una città trasformata in una grande trappola per topi. Uno di questi in quella grande trappola ci lasciò anche il suo esile e giovane corpo. Carlo Giuliani con i suoi progetti di vita finiti in quella maledetta piazza Alimonda, in quel maledetto luglio di venti anni fa .