Oggi a Palermo per ricordare Paolo Borsellino non posso non pensare che da 29 anni lo Stato serve carte truccate a chi cerca la verità. Menzogne, misteri, falsi pentiti, falsi arresti, traditori, quattro processi, una trattativa con la mafia negata, carte truccate con la complicità degli indifferenti e dei collusi. 19 luglio 1992. Improvvisamente è stato l’inferno. Un boato. Una grossa fiammata. L’onda d’urto è terrificante e squassa tutto. In via D’Amelio è l’infermo. Brandelli di carne umana sparsi dappertutto”. Salta in aria dilaniato il giudice Paolo Borsellino sotto l’abitazione della madre, quando una Fiat 126 , contenente circa 90 Kg di esplosivo, telecomandati a distanza, esplode uccidendo con il giudice e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Con Giovanni Falcone, suo amico e collega, Paolo Borsellino è considerato la figura più importante e prestigiosa nella lotta contro la mafia italiana. I destini di questi due eroi erano strettamente legati fin dall’infanzia, cresciuti insieme nel quartiere Albergheria. Diventati magistrati insieme.
La storia di Paolo Borsellino dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. A ogni commemorazione della strage di via D’Amelio, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa. A un giovane lettore potrebbe sembrare che Borsellino sia stato l’uomo giusto, amato, rispettato, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così . Per ricordare il 29° anniversario della strage di via D’Amelio voglio evidenziare quest’aspetto che non tutti conoscono anche per questioni anagrafiche. E’ giusto e moralmente corretto che tutti sappiano. In special modo i giovani devono sapere che il giudice istruttore membro del pool di Caponnetto, che col maxiprocesso e i suoi metodi investigativi distrusse “Cosa Nostra” dell’epoca, ancor oggi faro per la lotta alle mafie a livello internazionale, in vita fu odiato dai criminali e disprezzato dalle persone “perbene”. Falcone e Borsellino furono traditi. Le carte processuali, in questi 29 anni hanno dimostrato che le stragi non furono una semplice vendetta di Cosa nostra per i 20 ergastoli e 3000 anni di carcere del maxi
processo e per quello che significò a seguire. Borsellino viene eliminato da uomini della mafia con la complicità di uomini dello “Stato”, persone in divisa, perché ha compreso che c’è un patto satanico tra una parte dello Stato e la mafia , e intende denunciare la portata del patto. Paolo Borsellino non solo scopre l’esistenza di negoziati diretti tra lo Stato e la mafia e vi si oppone, ma ne scopre i protagonisti. Che ancora oggi, dopo 29 anni, continuano a depistare, tacere, proteggere le menti che vollero la strage.
La sua via crucis, che si concluderà sotto casa della madre in una afosa domenica di luglio, era partita la notte del 5 agosto del 1985, quando i due magistrati e le loro famiglie in un momento storico, e per certi versi irripetibilmente crudele, della lotta dello Stato contro la mafia furono prelevati notte tempo con le famiglie, sradicati di peso dalle loro case e dal loro ufficio per evitare d’essere travolti dalla furia omicida del capo dei corleonesi, Totò Riina, e trasferiti da Palermo ad Alghero, con un aereo militare. Quindi, sempre nella massima segretezza, vennero accompagnati a Porto Torres a bordo di blindati e infine, su alcune motovedette, sbarcati a Cala Reale, confinati nella caserma del corpo forestale nell’isola dell’Asinara. Borsellino, dilaniato con la complicità di uomini dello Stato, perché divenuto di intralcio alla “trattativa” in corso non può essere ricordato senza ricordare chi lo portò al macello. Questo il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone e Borsellino è perpetrare la menzogna. Queste mie parole suoneranno odiose, e vogliono esserlo, perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto in vita a Falcone prima e Borsellino poi, che sapevano di avere il destino segnato, che sapevano di essere “cadaveri che camminano” eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Possiamo chiudere qui. Anche perché per chi ama le commemorazioni, riducendo uomini in carne e ossa a icone dissanguate, ricordare queste cose è peggio di un’indigestione. Molto meglio abbandonarsi all’overdose di smemoratezza che caratterizza le liturgie ufficiali.