Nel 1972 nel periodo di massimo successo del duo, Battisti / Mogol pubblicarono uno dei loro capolavori: “Il mio canto libero”. Come ho scritto più volte questa opera rappresenta un punto cruciale nell’evoluzione della canzone pop italiana, segnando l’inizio dell’apogeo della maturità artistica del duo. Questo album di capolavori immortale contiene un vero “must” della coppia. “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi”. La conosciamo tutti. Il protagonista ricorda con tristezza quando fu abbandonato dalla sua donna, e nel ritornello si rassegna all’impossibilità di ostacolare i sentimenti “Come può uno scoglio / arginare il mare?” .
Davanti ad un evento in programma, mi dispiace, ma viene da chiedermi come può un piccione parlare e presentare un’aquila reale.
Uno che ha sempre volato basso, più strisciato, come può parlare di uno che ha toccato punte di genio e inventiva culturale mai più neppure ipotizzate. Un nano che ha vissuto in ginocchio, come può parlare di un gigante, buono, sensibile, generoso. Fragile.
Un rozzo ignorante come può parlare di un monumento al cultura, che toccava i temi dell’anima con quel tono di leggerezza che era stato un suo tratto distintivo. Anche nei momenti difficili e maledetti. Ancora più difficili per un uomo che aveva vissuto istanti magici.
Del sole che trafigge i solai, che ne sai
Poesia di un amore profano
La paura d?esser preso per mano, che ne sai
Uno tutto chiacchiera e distintivo come può parlare di uno tutto fatti e poche parole. Che passava ore in auto in silenzio per combattere l’unico vero nemico di cui ha avuto paura.
Per ricordare il prof. Di Dalmazio, per un giusto ricordo, vero, occorre dire che dal 1985 al 1995 il professore non fu amato da tutti. E non fu amato soprattutto dalla politica. Non poteva esserlo. Non faceva parte della “banda” che se la suona sempre per il proprio tornaconto. Per fortuna. Era troppo intelligente, sveglio, voglioso ai limiti della prepotenza, pensava, creava dopo comunicava. Era un top di gamma. Troppo superiore alla classe politica locale con la quale doveva confrontarsi. E lo sapeva. E ne rideva. Questa cosa non gli impedì di essere il miglior assessore alla Provincia di Teramo di sempre. Troppo poco. Non fu solo il politico teramano che, per primo – e forse unico – capì l’importanza della promozione turistica del territorio teramano, con le sue crociere sul Reno, la presenza alla fiera di Berlino dove cucinò le ceppe – e cantò – per migliaia di persone. Toppo poco. Italo di Dalmazio non fu solo energia, creatività, fantasia. Troppo poco. Non fu solo l’inventore dell’Estate Teramana, i primi grandi concerti, le prime tende spettacolo, la Corte del Governatore, il rilancio delle vere sagre tradizionali, che portò a una rinascita culturale della nostra Provincia. Non fu solo capace di frequentare le cantine e portare in scena Shakespeare, Cechov e Brecht. Non fu solo un’esplosione liberatrice della fantasia. Dal romanzo erotico alla poesia, dalla musica folk al pop. Italo di Dalmazio fu il politico che in pochi anni cancellò il torpore di una delle province più arretrate e spente d’Italia, con il coraggio di immaginare una primavera di rinascita. Perchè ? Semplice Perché era un genio. Un intellettuale scapigliato. Era vulcanico. Come gli ho sempre detto – anche nell’ultimo colloquio a margine del comizio elettorale di tre anni fa – in realtà era un fine uomo di cultura prestato alla politica. Che gli serviva per fare cultura. E per questo il suo nome resterà indelebile, per sempre legato alla rinascita culturale della Provincia teramana. L’unico rimprovero che gli facevo nei nostri continui scazzi, nelle nostre zuffe, fu quello di essere troppo avanti. Per quei tempi. Di non aspettare il gregge. E, infatti, non sempre tutte le sue tante iniziative ebbero successo. Purtroppo, dopo, lui ci stava male. Non capiva. Si rammaricava. Si incazzava. Era uno spirito libero, dubbioso e critico con un fondo di timidezza da cui provava a difendersi con una punta di dandismo. Così oggi, tra i tanti caduti nel dimenticatoio, la figura del prof Di Dalmazio affiora tra fiotti di ricordi che mischiano vissuto pubblico e personale.
Di Dalmazio metteva al centro la capacità, le idee, la parola, l’attimo, l’immagine, l’immanenza. Orario di lavoro senza orario. Poteva chiamarti a qualsiasi ora. Le cose andavano pensate e ripensate, studiate, cambiate. Poi realizzate. Quando aveva deciso era incontenibile. Le delibere si facevano in mattinata e approvate nel pomeriggio. Tutti prendevano l’anticipo di legge e tutti venivano pagati in pochi giorni. Bisognava correre. Se lavoravi bene una bella pacca sulla spalle e avanti un’altra. Se lavoravi male venivi fatto fuori. Molto semplice. Sempre diretto. Non c’era spazio per gli improvvisatori ne per i leccaculo. Si mise in moto una macchina perfetta. Fu come un grande respiro. La Provincia riprese fiato. Era un via vai. Quanti dopocena nel suo studio. Una sera del ’92 mi disse “…non dobbiamo dimenticare di dare una risposta ai “nuovi bisogni”. E mò che erano stì “nuovi bisogni”? Semplice. Ancora una volta avvertiva per primo in provincia l’urlo della gente che irrompeva dopo le violenze della “pantera” nelle grandi università, una dirompente domanda di convivialità, un desiderio di cultura proveniente dal basso, il rombo smorzato di un soffio che veniva da lontano, dalla cultura popolare, dalle storie di piazza.
Anche con l’aiuto della Fondazione Tercas che nasceva, e che non guardava alle tessere in tasca ma solo alla qualità delle proposte, si organizzarono momenti culturali con idee forti e coraggiose, arrivarono a Teramo i migliori artisti. Gli spazi non bastavano. Era un continuo fermento. Era la primavera teramana che aveva sognato. Anche il Palazzo del Mutilato diventò un luogo centrale della cultura e quando non bastò si mise un tendone in piazza Dante, e poi alla villa comunale, il parco Mendez a Giulianova, l’Arena 4 Palme a Roseto, il teatro di Atri erano un pullulare di belle iniziative. Pescara non la pensavamo proprio, non esisteva. Nascevano i festival dei poeti e della letteratura davanti a centinaia di giovani . Era la cultura di massa. E si offriva a chi era ai margini, ai più poveri la rassegna cinematografica di piazza. Per anni e anni, poi dal 1991 al 1995, viaggi all’estero, Teramo/Roma, cene e serate, mai e dico mai mi chiese un voto, un piacere. E anche quando nell’marzo del ‘95 io decisi di trasferirmi a Roma, volle invitarmi a cena per riconfermarmi tutta la sua stima. Che era reciproca. Anzi il mio era affetto. Anche perché vedevo che lui iniziava a cambiare, era meno allegro, meno brillante. E solo chi non l’aveva conosciuto non capì quel “…dite che ho fatto di tutto per campare” alla presentazione della stagione di teatro comico di Teramo del ‘95 con Franca Rame e Dario Fo che lui volle fortemente.
La ricordo bene quella sera a cena. Di Dalmazio istrione un pò circense, fu il grande protagonista, raccontando aneddoti picareschi, surreali, sempre sintomatici, sulla falsa riga di chi ritiene che prendersi sul serio sia in fondo la cosa meno seria che si possa fare nella vita. Dario Fo certo non si faceva pregare e cominciarono a cantare. Oggi ricordo con piacere e con affetto quell’intellettuale ricco di idee e di progetti innovativi, che ha sempre favorito e sostenuto un’idea di cultura popolare vicina alla gente, rivoluzionando la nostra Provincia aprendo nuovi orizzonti sulle potenzialità della nostra Provincia. Ricordo con un po’ di tristezza quell’indiscusso protagonista della vita culturale e politica. Che lasciò ad ognuno di noi una meravigliosa eredità. Purtroppo non raccolta. Anzi dilapidata. Soprattutto il professore lascia delle riflessioni sull’importanza della cultura quale risorsa immateriale per eccellenza, per il governo della città. Qualcosa di complesso, che passa per il sentimento di cittadinanza e di appartenenza; ma anche per il valore economico – politico – simbolico della competizione sul terreno culturale nell’epoca del mondo globale. Come lui soleva ripetere non ci sono solo le squadre di calcio; si compete anche con il significato residuo dei luoghi e delle città, con i musei e i monumenti, con il paesaggio e con la storia, con la creatività, con l’immaginazione, con il piacere di vivere. Il Professore ci lascia l’autonomia della cultura, il suo valore assoluto. Che in un mondo sempre più servile ed etero diretto, è un valore inestimabile. Visto che è impossibile recuperare la sua capacità e operatività politica, occorrerebbe recuperare in ogni direzione la sua capacità di progetto. Ma, mi dispiace, non può, non potrà mai farlo, chi quelle cose non le ha vissute, non le vive, proprio non le capisce, non ce l’ha dentro. E per questo una aquila reale vive libera nel cielo e il piccione vive in gabbia.