A Roma si sentiva meno in pericolo. Andava anche a pranzo da solo, alla taverna Cairoli nel ghetto ebraico, davanti al suo ufficio di via Arenula. Ritornava a Palermo due venerdi al mese. Il volo di linea era prenotato per Venerdi 22 maggio ore 19,00.  Tutto rimandato: Francesca Morvillo quel sabato mattina era impegnata con il lavoro. E così il volo viene spostato al giorno dopo, alle 10,00 del 23 maggio con volo Alitalia. Qualcuno sapeva. Ma nel corso della giornata la trasferta a Palermo del 23 maggio prima viene annullata. Poi comunicata al reparto scorte della questura di Roma nel pomeriggio del 23 maggio, alle 16.00 circa. Falcone è in partenza. Viene avvertita la questura di Palermo.  I tempi erano molto ristretti per fare il fonogramma a Palermo, predisporre il servizio a Palermo.  Ma nel caso di Falcone non era strano. L’orario della partenza lo diceva sempre all’ultimo momento ai ragazzi della scorta, si comportava così da anni, con tutti quanti. Ma qualcuno sapeva.

Ore 16,35, un volo del Sisde parte da Roma Ciampino per Palermo. Dentro ci sono Falcone e sua moglie Francesca Morvillo. Qualcuno sapeva. Arriva puntuale alle 17,40.

17,56 minuti del 23 maggio 1992, gli strumenti dell’Istituto di Geofisica di monte Erice registrano un evento sismico con epicentro Capaci. Ma non è un terremoto, sono cinquecento chili di tritolo che fanno saltare in aria Giovanni Falcone. Sull’autostrada che corre dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo è l’inferno.

Il giudice è ancora vivo, lo spazio aereo chiuso, la prima auto blindata è scaraventata a oltre cento metri di distanza e i tre poliziotti che lo seguono come ombre – Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo – non ci sono più. Muore anche Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone. Sono feriti i poliziotti dell’altra blindata, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello. E’ sanguinante Giuseppe Costanza, l’autista. Ore 19,00 Falcone è trasportato in ospedale. E’ cosciente. E’ vivo. Arrivano in ospedale Paolo Borsellino e Antonio Ingroia. Dopo poco  dall’ospedale civico arriva la comunicazione ufficiale: Giovanni Falcone non ce l’ha fatta. La notizia fa il giro del mondo.

I sicari sono già lontani, ma non lo saranno per molto. Hanno lasciato tracce sulla collinetta che guarda l’autostrada. Palermo è un grande microfono, due boss parlano di un “attentantuni”, le microspie intercettano le loro voci. La caccia ai killer è appena cominciata. L’ordine della strage è partito da Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Ancora sconosciuti, dopo quasi tre decenni, quelli che vengono chiamati “i mandanti altri”. Ancora sconosciuto è il nome di chi avvertì che Falcone era in partenza.

Almeno oggi occorre dire che sono troppo le coscienze passive, addomesticate, che trasformano la legalità in qualcosa di strumentale, malleabile, calibrata a seconda degli interessi. Sono troppi il colletti bianchi collusi. Sono troppi coloro che non vedono e non parlano. Sono troppi i timorosi tra coloro che omaggiano a parole Falcone ma vanno a braccetto con corrotti, ladri e massoni.  Dobbiamo dire chiaramente che sono costoro a creare il campo da gioco adatta alle mafie.

In quel momento Falcone è  il magistrato più amato e più odiato d’Italia, il primo che mette paura a Cosa Nostra. Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie, da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte. Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi. Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi. Per quello che fa o per quello che non fa. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. È celebrato come eroe nazionale. Oggi. Solo ora. Quando è nella tomba.