Portavano dei baffetti sale e pepe. Con un eloquio, immerso in un accento siciliano d’altri tempi. Riscrissero la storia di Palermo e dell’Italia. Si mormorava in continente che l’unica vera soluzione per combattere la mafia fosse di mandare in Sicilia magistrati non siciliani. Troppe contiguità e compiacenze culturali, troppi intrecci biografici e di salotti, si diceva, perciò le assoluzioni per insufficienze di prove. Come se i processi spostati a Bari o a Catanzaro  negli anni avessero dato risultati diversi. C’era senz’altro un tanfo di complicità, nei palazzi di giustizia siciliani. Ma stava anche arrivando dal ventre storico dell’isola, dal quartiere popolare Kalsa di Palermo, una nuova generazione di giudici che avrebbe costretto tutti, ma proprio tutti, mica solo i giudici, a schierarsi. O di qua o di là. I loro nomi erano Paolo e Giovanni.

Secondo il mio ricordo sentii parlare di loro nell’85. Fu quando seppi che, per dare giustizia nel maxiprocesso che squarciò le connivenze, erano dovuti andare sull’isola dell’Asinara per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio di più di 460 imputati. Restai di stucco. Loro due costretti a vivere come latitanti, mentre i latitanti veri vivevano tranquillamente, nel centro di Palermo. Si era un pò avverato, in fondo, l’auspicio di una lettera pubblicata dal “Giornale di Sicilia” dopo la strage in cui era stato ucciso Chinnici: ma perché, chiedeva il lettore, questi giudici invece di disturbarci con le sirene e fare correre a noi i rischi di quel che fanno non se ne vanno tutti a stare su un’isola, dove peraltro li si può difendere anche meglio? All’Asinara i due amici (ai quali lo Stato presentò pure il conto delle spese per quella vacanza di relax e divertimento…) stesero un’ordinanza capolavoro, punto di partenza per la storica condanna di Cosa Nostra. Divennero così invisi in coppia ai propri colleghi e al foro palermitano. Dove una volta si diceva che Borsellino fosse solo la spalla di Falcone, e un’altra si spiegava che senza i consigli e la mente di Borsellino, Falcone non fosse nessuno. Dipendeva solo da chi si voleva colpire. Da allora la loro vita cambiò. Scorta fissa. Niente finestre apete. Obbligo di comunicare le uscite. Minacce, polemiche, critiche, accuse, Sconfitte. Umiliazioni. Per chi ? Per cosa ? Per sentirsi dire da Leonardo Sciascia che lo facevano per fare carriera ?

Furono due uomini soli in perenne corsa contro il tempo. Che sapevano di dover morire per le scelte che avevano fatto. Loro sono la storia più vigliacca d’Italia. E da quel giorno mi chiedo: ne valeva la pena ?

Sabato 23 maggio 1992, sabato 23 maggio 2021. 29 anni ci separano dalla strage di Capaci ma il sacrificio di Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino è stato utile per gli italiani? Gli italiani hanno saputo essere all’altezza del sacrificio di Falcone e Borsellino?

Antonio Ingroia  che nei prossimi giorni porterà la sua testimonianza agli studenti abruzzesi, intervistato  dai docenti Fabrizi e Mariani per la piattaforma educativa del Premio Borsellino,www.officinalegalità.itin una recente intervista ha detto  di no. E’ un “no” frutto una riflessione profonda e al contempo amara quella di, ex procuratore aggiunto a Palermo. Un pensiero, che lascia meditare chi lo ascolta su quanto in realtà da quel pomeriggio tragico del 1992 sia cambiato nel Paese sul fronte del contrasto alla mafia e alle logiche mafiose. Sono in molti a ritenere che dalla strage di Capaci sia cambiato poco, troppo poco. E’ cambiata sicuramente la coscienza e la consapevolezza di molti italiani e siciliani sul tema antimafia, ma, quella che è venuta a mancare è la reazione concreta, con i fatti. Da parte, in primo luogo, del mondo della politica. Dobbiamo dire che l’Italia non è all’altezza di questi grandi maestri che  ricordo come Platone e Aristotele in questa riproduzione della scuola di Atene che il grande Raffaello dipinse per ricordare gli uomini che hanno costruito la nostra civiltà. Che hanno tracciato un modello: l’Italia dell’onestà, della giustizia e dell’antimafia. Ma dov’è ora questa Italia? Dove sono ora questi italiani che hanno raccolto l’eredità di Falcone e Borsellino?. Sono all’angolo.  L’Italia non ha fatto tesoro della lezione di Giovanni Falcone e oggi è bene ricordarlo. Come quel sabato del 23 maggio 1992  sarà  tragica anche questa  domenica 23 maggio 2021. Perché  sarà  la conferma che l’Italia non ha memoria e non ha la capacità di fare tesoro delle proprie esperienze, anche le più tragiche. Perciò, ha concluso Antonio Ingroia, “a quegli italiani che conservano la memoria dico che è il momento di ribellarsi a questo conformismo”. E’ il momento di impegnarsi per rendere viva la memoria di Giovanni Falcone a cominciare da questa settimana , e non fino a domenica 23 maggio 2021.  Dobbiamo dimostrare che “siamo Capaci”. Solo così  questo giorno  sarà un giorno di speranza e  diventerà progetto per un futuro migliore.