Anche a Teramo a luglio tornerà la musica. Intanto, da domani, si potrà tornare al cinema.
Tra i film da non perdere “Nomadland” di Chloe Zhao che, dopo il Leone d’oro a Venezia e i Golden Globe ha conquistato anche la notte degli Oscar, trionfando come miglior film, direzione e per l’interpretazione strepitosa di Frances McDormand.
Quando lo vedrete forse vivrete la mia stessa, strana, sensazione. Potreste trovarci un pò di voi. Il sogno americano, non e? piu? fatto di case e automobili, grattacieli e vie scintillanti, ma di enormi caravan e cieli aperti, piccole case viaggianti a bordo delle quali esplorare luoghi sconosciuti. Bruttissimi e bellissimi. E’ il nomadismo che, dopo essere diventato normalità in America, dalla crisi del 2008, si sta affermando anche in Europa. E, forse, sentirete di essere vicini ai personaggi del film, come Fern, una sessantenne che all’indomani del crollo economico di una citta? del Nevada, e della morte del marito, a una vita sedentaria e stabile preferisce prendere il largo lungo la strada, vivendo nel suo camper e spostandosi di città in città carica di bagagli. Così sul proprio furgone si mette sulla strada. Come una nomade dei tempi moderni. I viaggi si alternano ai lavori saltuari. Incontri occasionali all’interno di “comunita? mobili”. Gli incontri, i tramonti, i luoghi e i lavori nei quali di volta in volta la donna si imbatterà costituiranno il bagaglio della sua esperienza, della sua esistenza. La donna si interroga sul senso della propria esistenza cercando di elaborare un difficile lutto e di tornare a vivere in sintonia con il mondo.
Fern diventa così il simbolo ideale, la sintesi massima degli Stati Uniti d’America a noi più contemporanei. Una donna sola, con la testa sulle spalle e pronta ad affrontare continui cambiamenti pur di trovare il proprio equilibrio. Frances McDromand è bravissima nella parte. L’attrice riesce a restituire tutte le incertezze e le sfumature di un’esistenza precaria, ma che non si cura della stabilità. L’importante è continuare a sorprendersi, di ogni singolo momento, ogni istante, incontro o parola che si possano incontrare lungo la strada.
Nomadland è da vedere. Vivendo in una città che, ogni giorno, sempre di più, è obbligata a convivere con le “comunità mobili” che assediano il grande raccordo anulare, consiglio Nomadland a chi vuole provare a capire. Vivere in mezzo alla strada non è per tutti una libera scelta. Non è che son diventati poveri. Non è che sono indipendenti, e gli piace viaggiare senza avere un armadio o la libreria. È successo loro un evento che li ha cambiati. Hanno perso qualcuno e qualcosa. Un figlio, un compagno, la salute, il lavoro. Si è spezzato il patto che avevano con la vita, l’idea e la prospettiva di vita. E può succedere a tutti. Neppure il karma li seduce più: si sono comportati sempre meglio che hanno potuto, hanno amato, rispettato, eseguito, eppure. Ma c’è un buco dentro a renderli nomadi. E può succedere a tutti. Non è che non vogliano casa, l’avevano, ma casa è dove puoi ricordare senza soffrire, dove una maniglia rotta è una risata condivisa e se c’è un quadrato bianco alla parete manca una fotografia, non chi c’era ritratto. E può succedere a tutti. Vanno via perché un posto vale l’altro. Danno via le cose perché nessuna vale più. Quando arrivano gli elenchi delle sciagure sono i feriti a restare davvero soli. Ad andarsene per farsi dimenticare, e svegliarsi almeno una volta credendo non sia accaduto niente, prima di accorgersi di dove non sono. Sono loro la bellezza sfregiata. Che dura. E può succedere a tutti.
Fern non si definiscehomeless (senza tetto), ma houseless (senza casa). La differenza è sottile (in inglese home e house sono sinonimi seppur abbiano connotazioni lievemente diverse) ma fondamentale. In effetti la donna una casa la ha eccome: il suo furgone. Si tratta però di un’abitazione poco convenzionale, limitata e che viaggia su quattro ruote. La personalità di Fern è una personalità al limite, marginale, che vive al di fuori di ogni preconcetto. Una personalità, insomma, che non trova casa nell’America contemporanea.
Nomadland riesce a fotografare perfettamente lo stato d’animo di una donna, di una comunità, di una nazione sempre più smarrita e disorientata. Un Paese ormai privato delle sue radici, che ha bisogno di recuperare il suo passato, tornare alle origini per provare a riscoprirsi. Il film è una sorta di elegia alle minoranze, agli emarginati e al senso di accoglienza cui forse un tempo gli Stati Uniti erano abituati ma di cui oggi risultano completamente privi.
Nomadland è quindi la messa in scena di uno Stato che sa benissimo qual è il tetto sotto il quale ripararsi, ma non sa più a quale casa appartiene. Così, Nomadland si trasforma in una lettera d’amore a cuore aperto nei confronti di un Paese sempre più lontano, distante (fate attenzione a come la regista usa gli spazi nel film, raccontano tanto di questo scollamento). Il grande e glorioso Ovest, il far west a cui tutti noi ambiamo grazie soprattutto all’epica cinematografica, viene attraversato in lungo e in largo da questo film on the road privo di meta. Lo scopo è proprio la strada, il viaggio, non la sua destinazione.
Il film è una ballata contemporanea, ci dice il mondo in cui viviamo, le lotte che lo attraversano. Impossibile non mettere in relazione queste storie con l’esplodere di diseguaglianze sociali, ingiustizie economiche, sfiducia in un sistema capitalistico fallimentare.
In questo senso è molto curioso notare come il messaggio alla base di Nomadland non sia poi così lontano da quanto esplicitamente tematizzato nel film “Soul”. Lì, un musicista frustrato per via degli insuccessi della sua carriera professionale riscopriva il valore della semplicità, della vita che si manifestava in quanto tale, non come percorso finalizzato a uno scopo da raggiungere. In Nomadland, il viaggio intrapreso da Fern è praticamente il medesimo, cercando maggiormente il consenso del pubblico più cinefilo, facendo leva su immagini di rara potenza e silenzi contemplativi nei quali smarrirsi..