Un gesuita che, quando è stato eletto Papa, ha scelto di chiamarsi Francesco. E’ la prima cifra stilistica del profilo dell’odierno vertice della Chiesa cattolica . Quando Jorge Mario Bergoglio è stato eletto al soglio di Pietro, nel marzo del 2013, i commentatori hanno cercato di comprendere in che direzione stesse andando il cattolicesimo. Oggi, a otto anni e mezzo di distanza, c’è la certezza in più su come l’ex arcivescovo di Buenos Aires abbia impresso profonde svolte quanto su come il Santo Padre voglia un’agenda riformista per la Chiesa. Tralasciando le disamine sulla discontinuità con il suo predecessore, oggi l’espressione migliore per descrivere questo pontificato è quella che lo stesso pontefice argentino ha spesso utilizzato come paradigma programmatico: “Chiesa in uscita“. L’istituzione ecclesiastica, quindi, come una realtà in grado di fuoriuscire dalla sua natura autoreferenziale, per affrontare il mondo, dando priorità alle periferie economico-esistenziali del pianeta. Questa è, in estrema sintesi, l’indicazione per il presente che questo ecclesiastico ha portato in dote con sé sin dal suo insediamento. Dai dubbi sulla necessità dello Ior sino alla costituzione di un organo interno, deputato alla riforma strutturale della Curia romana: la parola d’ordine del pontificato di Papa Francesco è rivoluzione.
Il vero spartiacque del pontificato è stata la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris Laetita: da quel momento in poi è emersa l’esistenza di un’opposizione dottrinale. La situazione non è migliorata con il Sinodo sui giovani e con quello panamazzonico. La sua pastorale è costruita sulla base di un trittico: “Terra, casa e lavoro”. Una visione del mondo che si è declinata con la vicinanza agli ultimi, ma pure con la prossimità ai movimenti popolari. Un fattore, questo, che è stato spesso politicizzato.
Un attenzione particolare, com’è noto, è stata posta sulla questione dei migranti, che per Jorge Mario Bergoglio andrebbero accolti sempre, per via della sussistenza di un diritto assoluto non discutibile. Questa posizione ha fatto sì che i sovranisti-populisti, ma più in generale i conservatori dell’intero Occidente, si schierassero spesso sul lato opposto della barricata papale. Per fortuna.
“Incominciamo questo cammino… Un cammino di fratellanza, amore e fiducia tra noi”. Era il 13 marzo 2013, una folla sterminata – di quelle di cui non abbiamo neanche più memoria dopo un anno di pandemia – era radunata in piazza San Pietro sotto una pioggia leggera ed acclamava il nuovo Papa. Jorge Mario Bergoglio, l’arcivescovo di Buenos Aires scelto dai cardinali «dalla fine del mondo», salutava i fedeli con un italiano incerto dall’accento marcatamente spagnolo. E pronunciava una promessa: «Un cammino di fratellanza».
Un impegno che, dopo otto anni di pontificato, è stato suggellato dai tre giorni di viaggio in Iraq, il 5-8 marzo, probabilmente quelli che consegneranno questo papato alla storia. Primo Papa a mettere piede in una terra di guerra e devastazione, realizzando un sogno di 22 anni prima di Giovanni Paolo II, Francesco ha compiuto nell’antica Mesopotamia la sua missione di Pontifex, costruttore di ponti, aprendo una porta con l’altro volto dell’islam, i musulmani sciiti, grazie al cruciale incontro con il grande ayatollah Al-Sistani, e con una porzione di umanità troppo spesso ignorata dall’Occidente. Di quel viaggio resterà impressa nella memoria collettiva la “passeggiata”, se così si può definire il lento incedere di un Papa visibilmente commosso, del Vescovo di Roma tra le macerie di Mosul, la cittadina del Kurdistan iracheno proclamata nel 2014 roccaforte del Sedicente Stato Islamico.
In mezzo a palazzi sventrati, chiese dalle croci divelte, piazze usate come luoghi di tortura e case tornate ad essere abitate ma mai ricostruite nel timore di una nuova ondata di distruzione, si è elevata al Cielo la voce del Papa che ha condannato l’odio fratricida e la barbarie compiuta in nome di Dio. Gesti, parole, scenari pari per impatto – mediatico ed emotivo – ad un’altra immagine iconica di questo ottavo anno di pontificato: la camminata solitaria del Papa, il 27 marzo 2020, in una piazza San Pietro isolata e desolata, sotto una fitta pioggia, per la benedizione Urbi et Orbi nei giorni in cui la pandemia di coronavirus toccava i picchi più drammatici.
La ripresa televisiva dell’ottantaquattrenne Pontefice, solo e claudicante, con la schiena leggermente ricurva quasi come se sulle spalle portasse un peso, è divenuta l’icona di un anno doloroso per la storia dell’umanità. Lui, Francesco, chiedeva a Dio di scacciare la piaga della pandemia e invocava una fratellanza da non disperdere ma, anzi, rinsaldare in un frangente in cui tutto obbligava al distanziamento. Anche i non credenti hanno detto di aver pianto dinanzi a questo evento che si annunciava prettamente ecclesiale, ma che ha toccato indici d’ascolto mai registrati prima. Ecco, queste due immagini, le due camminate solitarie del Papa a Mosul e a Roma, segnano l’alfa e l’omega dell’ottavo anno di pontificato, interamente dedicato a curare le ferite provocate dal dramma dell’emergenza sanitaria, come pure dal flagello dei conflitti, dal terrore imposto con le armi, dalla piaga della povertà, dalla devastazione del pianeta attraverso lo sfruttamento esasperato delle risorse. Sfide che il Papa ha voluto cristallizzare nell’enciclica “Fratelli Tutti”, la terza del pontificato e probabilmente quella che ne caratterizzerà l’eredità futura.
Francesco l’ha voluta firmare simbolicamente il 3 ottobre 2020 ad Assisi, sulla tomba del santo poverello del quale ha preso nome e missione. Come san Francesco, il Pontefice argentino in queste pagine che traggono linfa dal “Documento sulla Fratellanza umana” firmato ad Abu Dhabi con il gran imam di Al-Azhar, ha indicato la via della fraternità – con il prossimo, con le altre religioni, con la madre Terra che ci ospita – come unica strada di salvezza in un mondo malato. «Nessuno si salva da solo», ha scritto il Papa, tanto più in questo frangente storico assediato dal Covid. È un messaggio che Papa Bergoglio ha ribadito quotidianamente durante le messe a Santa Marta, trasmesse dai media vaticani ogni giorno alle 7 del mattino nel tempo sospeso del lockdown. Un balsamo per tanta gente chiusa in casa per mesi, digiuna anche delle celebrazioni eucaristiche. Anche per il Papa non è stato un periodo facile il confinamento in Vaticano che gli ha impedito di celebrare gli Angelus e le udienze generali in piazza San Pietro e, soprattutto, di viaggiare. «Una prigionia», lo ha definito nel colloquio coi giornalisti che lo hanno accompagnato nella difficile trasferta irachena, dove dice di essere «tornato a rivivere». È tornato a rivivere, Francesco, anche perché per 72 ore si è scrollato di dosso il peso di tanti affanni che quest’anno hanno suscitato grande amarezza ma che lui ha vissuto come una purificazione. Ovvero gli scandali interni, in primis la vicenda finanziaria del Palazzo di Sloane Avenue a Londra, voragine che ha inghiottito uffici e personalità interne ed esterne alla Curia vaticana, per cui presto dovrebbe celebrarsi un processo. Addolorato ma determinato, Papa Francesco ha vissuto tutta questa situazione come occasione per procedere nel cammino della riforma: «Per la prima volta la pentola è stata scoperchiata da dentro», ha detto. Dunque un passo in più verso quella trasparenza auspicata da inizio pontificato.