In tempi di Covid diventa ancora più urgente ripensare gli spazi urbani e la riorganizzazione delle nostre città, perché, anche se arriverà un vaccino (si spera presto), le nostre vite non potranno, e non dovranno, essere più come prima.
Questo perché il Covid ha messo alla luce tutte le contraddizioni della vita moderna: dalla carenza di servizi alla persona alla mancanza di tutele per i più deboli, passando per l’inadeguatezza tecnologica dei servizi pubblici (scuole in primis) fino alla mancanza di spazi che possano permettere un minimo di interazione sociale in sicurezza.
E così, mentre molti amministratori vanno avanti come se niente stia accadendo, seguendo vecchi, e ormai universalmente riconosciuti come inefficaci, schemi di sviluppo, in molte grandi realtà urbane si afferma il concetto della “città dei 15 minuti”.
Rilanciata da Anne Hidalgo, attuale sindaca di Parigi, che ne ha fatto il punto focale della sua campagna elettorale (risultata vincente), grazie alle teorie del docente de La Sorbona Carlos Moreno, la “citta del quarto d’ora” prevede di contenere i flussi di traffico urbano per rendere i nostri centri urbani più vivibili, favorendo la prossimità.
Elemento principale sono i quartieri, dove si vive e lavora, e dove si deve poter acquistare beni e fruire di servizi, tutto a breve distanza, spostando, a piedi o in bicicletta, per un tempo minore di 15 minuti.
Per anni, a partire dal dopoguerra, si è pianificata la città per zone, dividendo i quartieri destinati alla residenza dalle aree destinate al lavoro e alla produzione, favorendo la concentrazione del commercio in centri lontani dall’abitato, serviti da ampi parcheggi e iniziando a realizzare anche poli scolastici con lo stesso principio. Il concetto del “drive in”, del facilmente raggiungibile in auto; luoghi estranei al contesto, vuoti per lunghi periodi della giornata o della settimana, corredati da grandi superfici destinate alla sosta delle vetture. Nel frattempo i nostri centri storici si sono svuotati di contenuti, diventando, spesso, il luogo del degrado, e molti quartieri sono relegati al ruolo di dormitori.
La città non è più un luogo di relazioni ma un è regolata dai flussi, dagli spostamenti continui, da centri che di giorno si riempiono e di notte si svuotano. La speculazione immobiliare ha favorito la realizzazione di zone del lusso estendendo a macchia d’olio le periferie, ma escludendo da entrambe i servizi, sempre più accentrati in luoghi dedicati (il centro direzionale, il centro commerciale, il polo scolastico, il centro sportivo, ecc.).
Questo perché la politica ha sempre più abdicato il suo ruolo di pianificazione al mercato, che oggi detta come si configura lo spazio urbano. In una recente intervista su Avvenire, Maurizio Tira, presidente della Società degli urbanisti italiani nonché rettore dell’Università di Brescia, ha sottolineato «L’accentuazione data all’iniziativa privata ha permesso che si perdesse la programmazione dei servizi. Da qui derivano i problemi urbani: trasporti personali inquinanti, densificazione, concentrazione dell’assistenza medica negli ospedali urbani mentre è scomparsa la medicina territoriale. Bisogna tornare alla progettualità. La densificazione va rivista a favore dei sistemi di rete e del dislocamento che favorisce il distanziamento. Vanno rivalutati i borghi abbandonati, soprattutto se vicini ai centri urbani. Fondamentale sarà il recupero degli edifici non più usati, così che la città cresca al suo interno e non al suo intorno. Ed è da ripensare anche la verticalizzazione, che accentua la densità: ma non vi si può ritornare alla città giardino, eccessivamente dispersa. Oggi non c’è un singolo modello valido ovunque: ogni luogo richiede soluzioni ad hoc».
Le nostre città, ormai, si sviluppano secondo le esigenze delle automobili private. Ogni spazio urbano libero è destinato alla loro sosta, spesso prolungata, e si realizzano sempre più strade per fludificare una circolazione che, in realtà, diventa sempre più congestionata.
Occorre, invece, pianificare (parola che ai nostri amministratori spesso non piace, perché presuppone l’acquisizione di conoscenza, e la programmazione per un arco temporale che travalica i brevi periodi che caratterizzano un mandato amministrativo), e non limitarsi a fare, magari rincorrendo le esigenze, spesso solo percepite e non reali, di gruppi sociali o lobbies.
«Bisogna che tempi e orari vadano rivisti per favorire lo scaglionamento; se le scuole e le altre attività aprono e chiudono contemporaneamente è difficile ridurre i flussi. Va rivalutata la mobilità pedonale e ciclabile, sinora sacrificata. E va favorito il trasporto collettivo, inclusi bike e car–sharing. Dove queste modalità sono da tempo privilegiate, come a Stoccolma, Zurigo, Copenaghen, Friburgo, il miglioramento della qualità urbana è sensibile». E l’architettura può fare la sua parte, sostiene Pier Luigi Nicolin, docente al Politecnico di Milano, sempre in un intervista su Avvenire, ma deve «recuperare una nuova etica. In una prospettiva meno tecnocratica e volta bensì a innovare la città, ma in continuità con la storia. Prendiamo Milano, dove vivo: come già notava Bonvesin de la Riva nel secolo XIII, è una città d’acqua. Perché dalla metà del secolo scorso fiumi come l’Olona o il Seveso nell’attraversarla scorrono interrati? A riaprirli sarebbero magnifici parchi urbani. E non si devono ritagliare enclavi classiste: qui i ricchi, lì i poveri. Né è buona cosa costruire nuove torri: i grattacieli isolano le persone. Altro è mantenere le distanze per motivi sanitari, altro è isolarle. La città sono luoghi di connessioni e prossimità, e in Italia da duemila anni ne costruiamo di bellissime. Non è questione di reinventarle: bisogna solo riscoprirle».
Insomma bisogna riscoprire la dimensione urbana, i quartieri dove sono presenti i negozi essenziali (alimentari, sali e tabacchi); i luoghi dell’istruzione (scuole materne e dell’infanzia); i servizi pubblici, anche in forma dematerializzata (terminali per l’accesso digitale); dove si possa fruire di servizi medici di base; si possa trascorrere il tempo libero (parchi, giardini, aree gioco); si possa anche lavorare, magari con sistemi di co-working che permettano di organizzare il lavoro a distanza fruendo di servizi comuni; il tutto raggiungibile, a piedi o in bicicletta, in 15 minuti.
Una sorta di ritorno all’antico, dove anche nelle grandi città, come Roma o Milano, ogni quartiere era una comunità autonoma, come servizi e come relazioni sociali. Con una connotazione moderna, però, perché la città, piccola o grande che sia, è un organismo complesso, e ogni sua parte e funzionale all’intero.
Per questo, ribadisco, serve la pianificazione, attraverso i piani regolatori generali, i piani dei tempi e degli orari, i piani per la mobilità, non limitandosi a risolvere i problemi immediati (che pure vanno affrontati e risolti), ma avendo un occhio al futuro lavorando per il presente.
Saranno capaci le nostre città di mettersi al passo con questa rivoluzione? Il cambiamento, ormai, non è più un’opzione, ma un obbligo.
di Raffaele Di Marcello