Se ci fate caso, da quando è iniziata questa epidemia, le nostre capacità di dare un indirizzo alle nostre vite si sono ridimensionate.

Quando qualcuno sostiene che la nostra esistenza è per così dire “sospesa”, forse si riferisce proprio a questo.

La sensazione è che, a causa di un virus che può insinuarsi dappertutto o che può contagiare in modo estremamente subdolo le persone considerate più al riparo da questi rischi, ogni soggetto ha, per così dire, abdicato ad una parte del proprio “libero arbitrio” che aveva esercitato fino a quel momento, pur nel rispetto delle norme per una corretta coesione sociale.

Ad un certo punto si è affacciata la “stagione delle ordinanze” e quindi delle disposizioni che andavano ad aggiungersi alle norme consuete: ed è come se prendesse forma una guida “per il bene di ciascuno”, ma che comunque finiva per entrare, per espandersi, per appropriarsi di spazi che prima erano prerogative del privato.

Ciascuno di noi ha iniziato ad avvertire il bisogno di documentarsi, di consultare ciò che era nei dispositivi emanati, per sapere se le iniziative che avrebbe preso, erano conformi alle direttive in vigore.

Insomma, approfondendo un po’, ciascuno si sarà reso conto che si è verificato una sorta di “espansione di una direttività pubblica” che si è andata incuneando negli interstizi dei nostri abituali comportamenti, per poi finire con il farsi spazio nella mente, alimentando dubbi, perplessità, interrogativi rispetto a scelte che avrebbero dovuto essere maggiormente soppesate, analizzate, ponderate.

Fermiamoci un attimo e cerchiamo di riflettere: interroghiamoci, per favore!

Quella stessa mente che oggi deve soggiacere al rispetto di disposizioni che si aggiungono alle norme abituali, che reputa necessario adempiere a regole che di fatto restringono i nostri spazi di manovra e, forse, inibiscono i nostri progetti, specie quelli a breve termine, è la stessa che domani dovrà riprendere a correre, per recuperare il tempo perduto, cui verrà chiesto di essere creativi, propositivi, inventivi per risalire una china, una volta che il pericolo sarà scampato?

Solo che la nostra mente non funziona in modo tanto diverso, ad esempio, rispetto ad un bolide di Formula Uno che, se viene tenuto in garage per mesi privo delle più elementari manutenzioni, non potrà poi scendere in pista esprimendo le medesime performances di una monoposto costantemente lubrificata e controllata in ogni suo meccanismo.

L’invito, allora, è che andrebbero emanati “inviti atti a facilitare” un percorso di ripartenza.

Andrebbero cioè sollecitate le menti a riprendersi il largo, a ritrovare la propria capacità inventiva, a ricordarsi che questo magnifico Paese è lì pronto ad essere nuovamente gestito perché siano riattivate le sue oasi naturalistiche come i suoi musei e le sue pinacoteche, come il suoi teatri ed i suoi centri di ricerca, alla stessa stregua di come instancabilmente i suoi ospedali sono stati sempre in attività.

Sarebbe davvero una beffa che, dopo tanta forzata immobilità, noi italiani non ritrovassimo la consapevolezza nel ripensare al proprio Paese.

Cioè non ci attivassimo, convenientemente per liberarlo da ogni “ruggine” che si è formata sui suoi congegni vitali.

Perché ripartire significa riacquistare noi per prima, la voglia di tornare ad un protagonismo, finalmente liberato dalle “pastoie burocratiche” che hanno “bloccato questo Paese” ben prima dell’arrivo del coronavirus.

di Ernesto Albanello