ATRI – Riceviamo e pubblichiamo il documento di Abruzzo Civico, inviato a Sindaco e Presidente del Consiglio comunale, con la richiesta di inserimento all’ordine del giorno della prossima Assise civica, prevista ad Atri lunedì 4 maggio.
L’emergenza epidemiologica da Covid-19 è senza dubbio la prova più difficile che il Paese abbia dovuto affrontare dal dopoguerra e le sofferenze da essa determinate non hanno risparmiato nessuno. La quarantena ci ha costretti a riorganizzare le nostre vite, ma è indubbio che il distanziamento sociale sia stata e sia, almeno per ora, la principale arma a nostra disposizione per contrastarne la diffusione.
Alto resta il prezzo che, comunque, si è pagato in termini di vite umane ed è doveroso condividere il dolore che ha straziato le famiglie alle quali la crudeltà del virus ha sottratto anche la possibilità dell’ultimo saluto. Perché tutto questo dolore non resti vano, auspico che ne usciremo migliori, come singoli e come comunità e che il valore della solidarietà torni al suo significato primario, come sentimento di condivisione e compartecipazione sincero. Lo stesso sentimento, non scontato, che è stato il valore aggiunto al senso di responsabilità che la comunità professionale del San Liberatore ha profuso dal momento dell’esplosione dell’emergenza.
Non retorico, né di opportunistica circostanza è il grazie che, soprattutto come cittadino atriano, rivolgo a tutti gli operatori sanitari, certo di interpretare il sentimento di una collettività che nel San Liberatore trova la sua identità e il suo orgoglio.
In qualità di consigliere comunale, sento, tuttavia, l’obbligo di una riflessione più ampia sul piano politico, che comunque determina, condiziona e segna il presente e il futuro del nostro ospedale. Perché è innegabile che sia mancato un confronto, è innegabile che fino ad ora il consiglio comunale non sia stato posto nelle condizioni di poter condividere o meno le scelte fatte, e dunque di esercitare le proprie funzioni.
Se nella prima fase la compressione decisionale è stata dettata dall’emergenza, quindi dall’immediatezza della risposta che ha riconvertito in pochissime ore il nosocomio in Ospedale Covid, sottraendo di fatto tutti i servizi e le prestazioni che lo caratterizzano, una più attenta e plurale condivisione avrebbe meritato la riflessione, in realtà decisione che sembra già assunta, sul futuro prossimo del presidio atriano.
Si è deciso, o almeno così sembra, che l’Ospedale di Atri – nel corso della fase due – oltre a ritornare alle sue normali attività, continuerà a funzionare contemporaneamente anche come struttura Covid. La mia domanda, non polemica ma anzi di onesta curiosità, è relativa alle ragioni che hanno dettato questa soluzione: se questa soluzione è stata presa, chiaramente, è più che lecito supporre che ci siano dei razionali medico-scientifici che la giustificano. Ma visto che questi razionali per ora non sono ancora stati esplicitati, ma anzi sono rimasti piuttosto nebulosi a livello pubblico-mediatico, chiederei che li si chiarisca formalmente una volta per tutte e in modo definitivo. Se, come afferma il Ministro della Salute, la fase due deve passare attraverso un’organizzazione territoriale attenta, non si comprenderebbe, o almeno io non comprenderei, senza una chiara esplicitazione delle motivazioni, quale sia la visione strategica della ASL di Teramo e della Regione Abruzzo.
Se Pescara avrà una struttura dedicata, con un finanziamento di 11 milioni di euro, Giulianova ha riconvertito in Covid la struttura già destinata ad accogliere i malati di Alzheimer, Teramo e L’Aquila avranno comunque reparti finalizzati, diventa difficile comprendere – senza una valutazione manifesta delle ragioni specifiche – la scelta, che altrimenti potrebbe apparire frettolosa, assunta per il San Liberatore.
Ma posto che sia necessario, in un’ottica di malaugurata recrudescenza del virus, mantenere un presidio Covid nel nostro territorio, c’è bisogno ovviamente di una discussione aperta anche relativamente all’organizzazione che l’Ospedale dovrà avere nella prossima fase in vista della sua doppia funzione. Giustamente si è parlato di una segregazione funzionale dei percorsi, tra quello “sporco” Covid e quello “pulito” non Covid La scelta di dedicare il padiglione del “vecchio” ospedale alla cura dei pazienti Covid è sembrata essere la soluzione ottimale, e secondo molti questo tipo di separazione della parte “sporca” da quella “pulita” consentirebbe il ritorno alla piena e normale attività ospedaliera.
In qualità di consigliere comunale sento il diritto/dovere di dissentire da questa opinione: è innanzitutto noto a tutti che la lotta al contagio sarà vinta solo quando avremo a disposizione un vaccino efficace e fino ad allora sarà difficile che l’ospedale torni, nonostante gli annunci, alla sua piena funzionalità. Prova ne è il fatto che, nella prima fase di riconversione, il numero dei posti letto sarà comunque inferiore. Ma l’aspetto più importante su cui mi preme obiettare è quello legato a come è stata pensata la separazione funzionale dei percorsi: seppur si ipotizzino due ingressi differenti, i due blocchi – Covid e non Covid – insisterebbero comunque negli stessi spazi e si troverebbero nello stesso edificio.
Uno dei nostri obiettivi condivisi, chiaramente, dev’essere quello di impedire o, almeno, minimizzare le possibilità di spiacevoli outbreak ospedalieri. Le strutture ospedaliere sono, per ovvie ragioni, tra le più vulnerabili e credo sia un dovere delle autorità vagliare tutte le ipotesi sul tavolo e – se possibile – prediligere quelle che, ceteris paribus, rendano più inverosimili queste dolorose (ma purtroppo realistiche) eventualità.
La fase uno dimostra come spesso, per una ragione o per un’altra, sia difficile mantenere una totale impermeabilità tra i percorsi, pur funzionalmente separati, quando questi si trovano comunque all’interno di uno stesso edificio. Pertanto invito le autorità a vagliare l’ipotesi ragionevole di una vera e propria segregazione spaziale completa dei percorsi, ponendoli in essere all’interno di due edifici totalmente diversi.
Proporrei infatti di mantenere presso l’edificio ospedaliero le normali attività (il percorso “pulito”) e di sfruttare invece come sede per la struttura Covid l’ex orfanotrofio femminile “ D. Ricciconti”.
Non secondaria, poi, è la gestione delle risorse umane. Un aspetto che non vedo affrontato, nonostante appaia urgente, è proprio l’organizzazione in sicurezza del personale che sarà destinato alla cura dei pazienti Covid.
La segregazione fisica dei percorsi va accompagnata, mi sembra chiaro, ad una segregazione totale del personale. Chi tratta i pazienti Covid non può poi anche occuparsi dei pazienti normali e viceversa. L’eventualità opposta, sempre nell’ottica di una minimizzazione del rischio di focolai ospedalieri, appare chiaramente troppo pericolosa, sia per la salvaguardia della salute dei cittadini e dei degenti normali in ospedale, sia per quella dello stesso personale sanitario. Non credo sia possibile pensare di gestire in promiscuità le figure professionali tutte (medici, infermieri, operatori socio sanitari, operatori tecnici e addetti alle pulizie).
La struttura Covid deve dunque avere un personale finalizzato unicamente ed esclusivamente alle cure dei pazienti affetti dal virus, senza che ci siano rischi, per nessun altro, di diffusione del contagio.
La domanda diventa un’altra: l’ospedale di Atri ha abbastanza operatori per attuare, in modo efficiente, questa divisione del personale in due? Se non ne avesse abbastanza, è previsto un rinforzo in termini dell’organico destinato unicamente al Covid? È’ prevista, ad esempio, l’aggiunta di figure mediche specializzate (infettivologi, etc…) che per ora mancano ancora presso l’Ospedale?
Un’ulteriore possibilità da considerare con la massima premura, sempre con l’obiettivo di minimizzare la possibilità di outbreak ospedalieri, è quella di dotare le strutture ospedaliere (tanto quelle Covid quanto quelle non Covid) di strumenti e dispositivi di diagnostica rapida (tamponi molecolari veloci) per individuare prontamente eventuali contagi non tracciati all’interno degli ospedali. Ritengo sia indispensabile possedere una strumentazione diagnostica a livello sanitario per individuare immediatamente la presenza o meno del contagio in qualunque cittadino si rechi nella struttura ospedaliera, e anche per effettuare tamponi di routine per il personale e per i pazienti in degenza in modo da non sovraccaricare periodicamente l’attività laboratoriale provinciale che si occuperà dell’effettuazione della maggior parte dei tamponi. Tanto la struttura Covid quanto quella non Covid dovranno avere delle proprie (distinte) strumentazioni diagnostiche, da utilizzare nell’ottica di prevenzione del rischio.
Ad onor del vero devo dire che i dispositivi portatili per effettuare test molecolari rapidi di cui sono a conoscenza (che offrono un risultato accurato nel giro di minuti) purtroppo non sono ancora disponibili nel mercato europeo, ma sono a disposizione, per ora, solo nel mercato statunitense. Rimane però molto forte e pressante il mio invito acché le autorità competenti si muovano e si attivino il più in fretta possibile per fare in modo che questi dispositivi vengano prontamente prenotati e messi a disposizione per le strutture ospedaliere, così come è stato fatto negli USA.
Spiace constatare, altresì, come sia assente un piano di potenziamento sostanziale della medicina del territorio, proprio quella che è mancata nella prima fase, di fatto determinando in alcune realtà territoriali ritardi nella localizzazione dei casi e una conseguente saturazione degli ospedali e delle terapie intensive.
E’ infatti anche ai medici di base che andrebbero indirizzate risorse importanti e strumenti di diagnostica rapida, perché sono loro a costituire il vero avamposto per l’intercettazione locale del contagio. Colgo infatti l’occasione per esprimere anche a loro il mio più sentito ringraziamento, proprio per il lavoro silenzioso che hanno svolto e che continuano a svolgere tra mille difficoltà, anche burocratiche.
Ritengo chiaramente vitale avere dei laboratori diagnostici a livello provinciale (come quello presso l’Istituto Zooprofilattico di Teramo) che possano effettuare tamponi alla popolazione, ma all’attività di questi laboratori andrebbe accompagnata – lo credo fermamente – la possibilità di effettuare tamponi molecolari rapidi da parte della rete locale del personale medico di base. Considero questa modalità di intervento come un’integrazione fondamentale all’attività laboratoriale, per intervenire tempestivamente sul territorio ove necessario, quando non è consigliabile aspettare giorni per la valutazione del tampone, nell’ottica di evitare altresì la possibilità di eventuali futuri congestionamenti dell’attività laboratoriale provinciale. Un ulteriore decentramento dell’attività diagnostica tramite i medici di base sarebbe, siamo tutti d’accordo, un’arma importante per limitare velocemente la circolazione del virus a livello locale.
Un’ultima considerazione: desidero che il presente documento sia letto non come una polemica ma come uno spunto di riflessione generale, come l’articolazione di una serie di consigli e inviti fatti in uno spirito di massima collaborazione, così come mia abitudine.
In qualità di ex Sindaco ed ex amministratore Provinciale, ho sentito il dovere di esternare un punto di osservazione magari diverso che, spero, possa servire per generare ulteriori riflessioni e per meditare le scelte definitive in modo più ponderato.
La mia persona e il mio ruolo sono e saranno sempre a disposizione per la salvaguardia degli operatori e di tutti i cittadini utenti del San Liberatore.
Il Consigliere Comunale di Abruzzo Civico
Rag. Paolo Basilico