Ricordiamo esattamente dove e con chi eravamo e cosa stavamo facendo. Ma, stavolta, gli inquilini delle torri gemelle eravamo noi. Sono passati due anni ma, a ripensarci, sembra ieri. Il turista che portò il virus a Roseto. La fila al supermercato. Le città chiuse. Tutti distanziati. Prima del 21 febbraio 2020 si parlava di Covid solo per una coppia di turisti cinesi. Ma proprio nella notte il Paese si scopriva vulnerabile, precipitato nelle grinfie di quella che si chiamerà più volte “la maledetta bestia dura”. Ricordo lo sgomento. Soprattutto di chi mai avrebbe immaginato che il virus colpisse realtà piccole come la nostra. Ero convinto attecchisse prima nelle grandi città. E invece. Roseto, Giulianova, Atri. Poi Teramo. Tutti stretti tra la preoccupazione per il non noto e la mancanza di punti di riferimento. L’epidemia si diffondeva e colpiva duramente. Le immagini dei carri militari che a Bergamo portavano via le bare delle vittime del virus sconvolgono il mondo. In quei frame è chiusa la rappresentazione più dolorosa della tragedia vissuta dal nostro Paese, concentrata in primo luogo nella perdita, con la morte di tanti anziani, del nostro patrimonio, della nostra memoria storica.
Ricordo l’appuntamento quotidiano col lutto in diretta tv, atteso da tantissimi italiani per conoscere i numeri delle vittime e dei ricoveri, lo stato di avanzamento del virus. Cercando una prospettiva che non facesse venir meno la speranza di una via d’uscita. Ricordo chi ebbe il timore di non reggere l’impatto emotivo del dramma, in cui nonostante il mio ragionevole ottimismo ho fatto fatica a trovare la forza di non cedere allo scoramento, in un Paese che era in lockdown generale, con l’infezione che dilagava, passando dal paziente uno alle strade militarizzate, da un solo ricoverato a oltre mille vittime in una escalation che sembrava non avere termine.
Ricordo i giorni in cui l’Italia si scoprì sotto attacco. Ricordo la percezione chiara di muoversi in uno scenario indefinito, con gli ospedali dove sembrava scoppiato il mondo: pazienti per terra o sui lettini in corridoio, dottori isolati, pochi respiratori. Mancavano le mascherine di protezione, scarseggiava l’ossigeno e le persone morivano in casa. Come in un Calvario, in una situazione irreale, che vedi solo nei film.
Ci sono anni che più di altri rimangono nella nostra memoria, cambiano le nostre abitudini e segnano il corso della Storia. Che hanno scritto il nostro passato, condizionandone inevitabilmente il futuro. Il 1978 e il terrorismo. Il 1992 e la mafia. Il 2001 e le torri gemelle . Il 2020 è sicuramente uno di questi. Definisce un tempo che oggi riconosciamo con fatica e che prima non avremmo mai immaginato. È uno spartiacque fra quello che è stato e l’incertezza di quello che sarà. Nel 2020, persino le coordinate con cui convenzionalmente si scandisce il tempo sono state alterate. Le settimane e i mesi sono stati sostituiti dai Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dpcm) che hanno sancito nuove libertà e norme comportamentali. Come una maledizione, esattamente cento anni dopo l’influenza spagnola con le sue decine di milioni di vittime, il Covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, scegliendo l’Italia come laboratorio globale del contagio. L’avvento dell’epidemia, presto diventata pandemia, ha trovato nella penisola il suo terreno più fertile, contagiando ad oggi più di 3,7 milioni di persone e causando oltre centomila vittime.
Abbiamo vissuto la sensazione che si stesse consumando la più grande emergenza della nostra storia recente, mentre eravamo chiusi in casa, e qualcuno con una falce spazzava il terreno attorno a noi, a casaccio. Sono passati 2 anni eppure sembra ieri. Ieri che è finita la vita di prima, in una soleggiata mattina di fine inverno. La Cina era lontana, lontanissima e quella lontananza pareva la miglior garanzia di sicurezza – quanto impreparati e illusi eravamo – così come, probabilmente, quel mattino di 2 anni fa, Teramo sarà sembrata lontana da Codogno , “la bassa” Lombardia. Invece, tutti noi ricordiamo esattamente dove e con chi eravamo quando abbiamo saputo, cosa stavamo facendo, dove ci siamo fermati increduli e incapaci di cogliere la portata di ciò che ci stava per travolgere. Come l’11 settembre, con la differenza che stavolta, senza rendercene conto, gli inquilini delle torri gemelle eravamo noi. Ci siamo ritrovati, stretti tra il passaparola e internet, al centro della notizia ma senza bussola e senza attrezzatura. Io mi regalai due ore di assoluta inconsapevolezza perché quel venerdì, come ogni venerdì, andai a messa per fare la comunione, alle sette del mattino, in una Roma ancora mezza addormentata. Passeggiai senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta per settimane e settimane, poi mi fermai al Bar Sant’Eustachio, e nel parcheggio dei Caprettari, come sempre, e solo allora, riaccesi il telefono. Arrivarono, in pochi secondi, una decina di avvisi di chiamata e altrettanti sms: qualcosa non andava, era chiaro, ma cosa? In un colpo di scena straniante e diabolico Stavano per cambiare nel giro di poche ore le nostre vite e tutto il mondo. Leggendo negli occhi altrui la propria stessa paura e la propria stessa incredulità. Era arrivato l’ospite inatteso. E da quel momento nulla sarà come prima.