TERAMO – La notizia della sua morte mi arrivò all’improvviso, come un lampo, in un tardo pomeriggio domenicale, afoso, di inizio estate. A darmela fu l’amico Carlo Ettorre. Don Riccardo se ne era andato in silenzio, senza arrecare disturbo, Come si conviene ai grandi, che escono di scena senza frastuoni, in punta di piedi; come era nel suo stile, da gran signore, un signore d’altri tempi, che ha accettato le novità è interpretato i segni del cambiamento, che ha speso bene la sua esperienza perché ha saputo essere un esempio di grande valore etico e morale. La sua figura abbraccia un arco di tempo molto lungo e accompagna i momenti più significativi della storia del movimento operaio e dell’antifascismo. La vita di questo combattente per la causa della libertà è un simbolo per tutti noi. I miei ricordi sono molti, nè saprei scegliere quale episodio o quale momento possa meglio illustrare la sua fermezza, la sua coerenza, il rigore della sua logica, come non è possibile sintetizzare in pochi minuti cosa significhi per tutti noi aver perso un uomo come lui. Il carattere dell’uomo era difficilmente classificabile. Capace di straordinaria dedizione e confidenza con la gente del Popolo e pure riservatissimo, cordiale, ma sempre un po’ distante con i potenti, orgoglioso della propria indipendenza intellettuale. Don Riccardo aveva un eloquio affascinante, che ti conquistava e rapiva. Conversare con lui era una piacevolezza. Leggeva molto e studiava con impegno; era informato su tutto. I suoi pareri e i suoi giudizi erano sempre frutto di ponderatezza e meditata riflessione. Egli detestava la superficialità e l’improvvisazione. Non credo di avere incontrato nel corso della mia esistenza un uomo di così vasta e profonda cultura. Si era formato su Diderot e Voltaire; aveva seguito studi approfonditi su Russeau. Ma le sue preferenze erano per Croce. Don Benedetto, come lui stesso desiderava appellarlo, e per Gramsci, di cui conosceva il pensiero ed ogni scritto, anche minore. Aveva compiuto gli studi universitari a Firenze. Lì aveva conosciuto Piero Calamandrei e si era laureato con Gugia. Era diventato assistente di Giorgio La Pira presso la cattedra di diritto romano. Furono quelli gli anni decisivi per la sua formazione culturale e politica. Sarebbe certamente diventato un docente universitario di vaglia se fosse rimasto in quell’ambiente, ma il richiamo dell’Abruzzo, della sua terra, fu più forte. Riccardo presto rientrò a Giulianova. Fu assiduo discepolo del professor Adolfo de Marco, intellettuale antifascista teramano, che aveva educato schiere di giovani agli ideali di democrazia, di giustizia e di libertà. La sua amicizia con antifascisti come Lidio Ettorre, Abramo Esposito e Leo Leone, la frequentazione di dirigenti politici come Alessandro Pica e Pasquale di Odoardo, Ezio Ridolfi e Tullio Conte lo avvicinarono al movimento operaio giuliese e alla sua tradizione libertaria. Sì cementò così un legame indissolubile che si andò consolidando negli anni. Fu quello il periodo in cui ebbe un rapporto fecondo con Renato Willermin, antifascista Ligure, avvocato, uomo politico di parte cattolica, confinato a Giulianova dal febbraio al giugno 1943, fucilato per rappresaglia dai nazifascisti il 27 dicembre dello stesso anno sugli spalti del Forte Sant’Angelo di Savona. Riccardo, ancora giovanissimo, divenne comandante della formazione partigiana della nostra città, partecipo poi da protagonista la battaglia di Bosco Martese, che rappresentò il primo scontro in campo aperto con le truppe naziste. L’incontro con Mario capuani, con Vincenzo Orsini, con Felice Rodomonte ed Armando Ammazzalorso rafforzò la sua fede politica da antifascista. Dopo Bosco martese, il suo antifascismo non fu mai generico, non fu solo contrapposizione ad un evento negativo e tragico della storia d’Europa, ma anche affermazioni in positivo di valori. E soprattutto una concezione nuova della democrazia, fondata sul principio che le grandi questioni della libertà camminano ed avanzano insieme a quelle della giustizia, dell’uguaglianza, della pace. Una concezione della democrazia che ha al centro l’uomo nella sua dimensione storica e reale, ed esprime una forma alta di umanesimo, in cui la “ragione politica”, anche la più nobile, non si sovrappone, non esautora, non umilia mai le esigenze, le attese, i bisogni degli uomini e delle donne. Di questa forma di umanesimo Riccardo Cerulli è stato sempre un propugnatore e un maestro. Umanesimo che viveva in lui non solo come concezione teorica e politica, ma anche nel suo modo di essere e di porsi di fronte alla gente e alle persone più semplici. Egli ebbe sempre Altissimo il senso delle istituzioni, della loro autonomia, della loro funzione di rappresentanza generale, che non consente spazi ad interessi di gruppi. Per questo egli pose in modo così forte e importante la questione morale, per questo fu severo con i politici implicati nella vicenda di tangentopoli e verso quanti asservono le istituzioni a fini di parte. Egli ha creduto sempre nell’Italia della ragione, cioè della tolleranza, del colloquio e della persuasione. Valori che gli, laico, sentiva legati a una profonda radice Cristiana, valori comuni al mondo laico e al mondo Cristiano nel loro intrecciarsi e nel loro costante convivere e cooperare. Non spetta a me ricordare il giurista colto è appassionato, stimato e onorato dai colleghi. Riccardo fu un impareggiabile presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e procuratori di Teramo, che guidò con determinazione e saggezza, sempre da uomo libero, coerente con quei principi che hanno ispirato la sua esistenza. Il suo stile oratorio, di grande avvocato, si dipanava lungo un sottile e tenace filo logico. Uomo di alta dottrina giuridica, non ha mai fatto concessione alla retorica. Per anni ha tenuto arringhe difensionali nei tribunali di mezza Italia spesso per tutelare i diritti calpestati. Fu sindaco di Giulianova dopo la Liberazione. Durante la sua permanenza al palazzo di città operò con impegno e rettitudine. Adottò provvedimenti emergenziali per far fronte alle esigenze di una popolazione fiaccata dalla guerra e dai bombardamenti, dalla miseria e dalla fame. Placò gli animi e grazie a lui non si verificarono episodi di odio e di vendetta. Nel lungo periodo che va dagli inizi degli anni sessanta la fine degli anni novanta. Cerulli continuò ad essere una delle personalità più rappresentative ed eminenti della democrazia abruzzese. Contribuì alla nascita, insieme all’inseparabile Pasqualino Limoncelli e ad altri giovani intellettuali teramani, del Centro Gramsci e successivamente della casa della Cultura intitolata a Carlo Levi. Fu quella una stagione appassionante, di risveglio delle coscienze, che favorì la crescita civile e la diffusione culturale in tutta la provincia. Personalità del mondo politico e culturale nazionale si incontrarono a Teramo e a Giulianova per dare vita dibattiti di grande spessore ideale. Scrittori e registi come Pasolini, Moravia, Zurlini, Loi e uomini politici come Pertini, Amendola, artisti come Tomo Zancanaro, Murer, Ernesto Treccani furono ripetutamente ospiti della nostra città e di altri centri del teramano. Don Riccardo per molti anni è stato presidente dell’Istituto abruzzese per la storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza, contribuendo così alla divulgazione della storia geografica resistenziale. Non mancarono polemiche sulla conduzione della rivista dell’Istituto. Io stesso fui testimone di uno scontro dialettico tra Don Riccardo e lo storico Raffaele Colapietra. Ci furono incomprensioni gravi. E alla fine i due gentiluomini si sfidano a duello. Non fu facile ricomporre un sodalizio che durava da decenni. Come membro della Deputazione di Storia Patria si è fatto apprezzare per il suo rigore di ricercatore e per i numerosi lavori e saggi di alto valore scientifico. I suoi scritti storici sono citati da autori nazionali e stranieri. I suoi studi sugli Acquaviva e i Melatini, il testo Giulianova 1860 rappresentano un contributo importante per quanti vogliono approfondire le vicende del mezzogiorno d’Italia e la storia della nostra provincia. Don Riccardo era un uomo schivo, che rifiutava il palcoscenico. Non volle mai riconoscimenti e onori. Correva l’anno 1976, il Parlamento si era sciolto anzitempo. Eravamo alla vigilia di uno scontro elettorale importante e per alcuni versi decisivo. Il PCI di Berlinguer, sempre attento ai fermenti nuovi, riteneva che anche qui in Abruzzo bisognava favorire l’impegno politico diretto di personalità del mondo della cultura ed espressione della società civile. Pensammo subito a Riccardo Cerulli. Fissammo un appuntamento a casa sua, a Santa Lucia. Andammo. Il compagno Renzo Trivelli, da poco entrato nella segreteria nazionale del PCI, era accompagnato da Claudio Ferrucci, Arnaldo di Giovanni, Pio Macera e da me. E fu lui a prendere per primo la parola, offrendogli a nome del partito (e con quanta ufficialità!) la candidatura e quindi la sicura elezione alla Camera dei Deputati. Ricordo l’emozione e l’imbarazzo di Riccardo. Alla fine ci lasciammo con l’intesa che egli avrebbe sciolto la riserva nei giorni successivi. La risposta non si fece attendere. “Vi ringrazio, mi sento onorato ma mi reputo inadatto per una funzione così alta. Desidero, però, che questa mia decisione non venga considerata un disimpegno. Anzi, da oggi aderisco ufficialmente al partito”. Questi, o signori, era Riccardo Cerulli. Di questa tempra egli era fatto. Con Don Riccardo scompare una delle figure più rappresentative dell’antifascismo abruzzese, una grande coscienza democratica. Egli appartiene ad una generazione alla quale il paese deve essere profondamente grato: è quella che più di ogni altra cosa ha concorso a restituire all’Italia la libertà e di conservarla nel nome di una altissima tradizione costituzionale cui si lega la democrazia di questi decenni. Scompaiono con lui la presenza e l’opera instancabile di una personalità quanto altre mai prestigiosa, di un intellettuale di eccezionale acume, di uno spirito arguto, di un maestro del diritto, di un animo forte che non si è mai piegato ai soprusi e alle prepotenze. Ma scompariranno l’esempio, la memoria, il patrimonio di esperienza e di moralità che egli lascia alla sua Giulianova e alla collettività teramana e abruzzese. Caro Don Riccardo, noi ti diciamo grazie. Sei stato per noi un punto di riferimento importante e sicuro. Ti ringraziamo per aver messo il tuo sapere a disposizione dei deboli e dei diseredati per far trionfare la giustizia. Infine, una nota spiacevole che non avrei mai voluto scrivere. Don Riccardo è stato anche un benefattore. Ha donato al comune di Giulianova l’ampio locale del sottobelvedere quando ancora in vita. Ha lasciato alla città la sua imponente biblioteca e la villa di Santa Lucia, dove si sarebbe dovuto istituire un museo delle Arti Contadine. Sono passati 20 anni e le amministrazioni che via via si sono succedute non hanno trovato il tempo per ottemperare alle decisioni testamentarie. Una vergogna!!
Senatore Antonio Franchi Presidente provinciale ANPI