Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Manola Di Pasquale:
Questa è una storia di violenza. Di violenza su una donna. Anzi, di tre violenze… scandite nel dolore di tre calvari. Il calvario della violenza. Il calvario di doverla raccontare. Il calvario di non vederla punita.
Tutto comincia nel dicembre del 2014, quando una giovane donna è stata letteralmente massacrata di botte dall’uomo di cui era innamorata. Il suo uomo, quello che avrebbe dovuto proteggerla, quel maledetto giorno l’ha segregata dentro casa e per tre ore l’ha insultata chiamandola «Troia, puttana, stronza…», poi l’ha presa a pugni, a schiaffi, a calci, l’ha trascinata per i capelli, l’ha fatta sanguinare e, quando sembrava che tutto fosse finito, le ha stretto le mani al collo fino quasi a soffocarla e l’ha minacciata di morte. Era terrorizzata, sapeva che tante altre donne, vittime della furia di un uomo, non erano riuscite a salvarsi. Temeva di morire, ma è riuscita a scappare. E’ riuscita a scendere dal suo primo calvario.
Il secondo è cominciato quando ha trovato la forza di denunciare il suo aggressore, accettando il dolore comune a tutte le vittime di violenza: rivivere continuamente quei terribili momenti, riviverli ogni volta che avrebbe dovuto raccontarli, riviverli davanti ad estranei, poliziotti, terapeuti, avvocati. Da quei racconti, da tutto quel dolore, dai suoi due calvari, è nato un fascicolo penale, che poi è diventato un processo. La risposta della civiltà contro la violenza. Ma la civiltà, ha i suoi tempi. Lunghi. Troppo lunghi. Il processo è stato fissato dopo due anni, a gennaio 2016 e lei prontamente si è costituita parte civile, ha presieduto all’udienza ed ha atteso che il suo aggressore venisse condannato. Ha sperato che quei due anni fossero l’ultima attesa, prima di avere giustizia.
In realtà, stava cominciando il suo terzo calvario. Di rinvio in rinvio si arriva all’udienza del 23 maggio 2017. Udienza fondamentale, quella nella quale avrebbe dovuto parlare lei. Avrebbe dovuto ricordare ancora una volta quel dicembre del 2014. Avrebbe dovuto farlo davanti ad un giudice. Per avere giustizia. Con lei, sarebbero stati sentiti anche tutti i suoi sette testimoni.
Giunti in aula, però, si sono sentiti dire che l’udienza sarebbe stata rinviata per motivi organizzativi. Quei “motivi” significano un rinvio di nove mesi. La causa viene richiamata il 27 febbraio del 2018. Stesso copione: la vittima e i sette testimoni si presentano nell’aula dell’udienza. Stessa sorte: per la seconda volta si sentono dire che l’udienza non si terrà, stavolta perché c’era lo sciopero degli avvocati e che quindi il processo sarebbe stato nuovamente rinviato.
Ed un un rinvio di un anno, l’udienza viene fissata al 19 febbraio 2019.
Stesso copione: la vittima e i sette testimoni si sono nuovamente presentati per essere escussi, ma il Giudice era assente… nuovo rinvio, di nove mesi all’udienza del 12 novembre del 2019.
Quando, forse, avrà la possibilità di parlare davanti ad un giudice, saranno ormai passati quasi cinque anni dall’incubo della violenza. Cinque anni. Nei quali avrebbe voluto vedere già condannato il suo aggressore, ma che non sono stati necessari neanche a far cominciare il processo.
Cinque anni perduti.
Cinque anni nei quali nessuno si è rivolto alla donna vittima di violenza, nessuno le ha chiesto come si sentisse, nessuno si è soffermato a riflettere sul come si senta una donna che deve ricordare e riferire sulla violenza subita, che deve rivivere ogni momento dell’orrore vissuto, nelle settimane precedenti il processo.
Quante notti insonni deva ancora vivere, prima di poter vedere condannato il suo aggressore?
Oggi, quando la giovane donna vittima del suo uomo, ha di nuovo sentito disporre il rinvio del processo, ha pianto e mi ha detto : «Quando potrò davvero cominciare a dimenticare tutto questo dolore?».
Quelle lacrime sono una domanda senza risposta.
Quelle lacrime sono uno schiaffo alla civiltà.
Quelle lacrime sono il fallimento di tutte le battaglie contro la violenza sulle donne.
Il Giudice che ha disposto il nuovo rinvio del processo, non ha pensato al suo dolore.
Non l’ha neanche guardata.
E’ questa la giustizia che vogliamo?Manola di Pasquale