“È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Che si poteva dire di più? Parole che non potrebbero essere più chiare. Parole che definiscono un orrendo scenario sullo sfondo della strage in cui persero la vita Paolo Borsellino e  5 uomini e donne della sua scorta. La Trattativa, quella che fece a pezzi Paolo Borsellino e cinque fra uomini e donne della sua scorta, fu nascosta, negata, dimenticata da altissimi uomini delle istituzioni che si trovavano nei gangli giusti. Visto con il senno di poi, è tutto chiarissimo. Paolo Borsellino accettò consapevolmente di morire perché a lui, quello Stato fellone, vile, mafioso, lo combatteva. Paolo Borsellino sapeva e accettò di morire, fu colpito alle spalle, ma con la coda dell’occhio fece in tempo a vedere le tremende dimensioni di ciò che si muoveva alle sue spalle.
Paolo Borsellino aveva capito il grande gioco. Quello stesso gioco che, 57 giorni prima di lui, aveva già stritolato il suo amico d’infanzia e di sempre, poi diventato persino collega nella lotta alla mafia Giovanni Falcone. Visto con il senno di poi, tutto si spiega. Quando erano vivi, lavoravano, si muovevano in un mortale e pestifero isolamento, tra colleghi invidiosi, esponenti politici corrotti e grande stampa venduta. Ma non morirono né da incoscienti, né da inconsapevoli. Vista oggi l’intera vicenda, possiamo dire che a entrambi, era tutto chiarissimo.  Sapevano di stare firmando un contratto con la morte che, prima o poi, sarebbe arrivata a chiudere il conto. Falcone denunciava l’esistenza di “menti raffinatissime”. Borsellino avvertiva “il tanfo del compromesso”. Tante volte entrambi dissero chiaramente di essere “cadaveri che camminano”. Furono questi i sassolini che vollero lasciare lungo una strada che, sapevano benissimo, non avrebbe avuto un ritorno.

Se Falcone fu ucciso “a sorpresa” mentre era oramai andato a Roma Borsellino fu avvertito dai servizi segreti, a giugno ’92, che erano arrivati 100 chili di tritolo ed erano per lui. Poi nuovamente il 4 luglio i carabinieri lo invitarono ad andare via perché la strage era imminente. Borsellino sapeva. L’unica cosa che potè fare ogni tanto era uscire senza scorta. Ma non poteva fare altro. Fu ucciso prima del tempo, proprio “a causa” della trattativa tra carabinieri e corleonesi, tra stato e mafia. La trattativa, per la quale si poteva vivere o morire. E Paolo Borsellino ne morì. Morì  per un Paese, l’Italia, che mentre celebra la sua legalità irriducibile, in realtà si adegua, tollera, scende a patti, convive e tira avanti. Oggi 19 luglio restano pochissime cose da dire in questo anniversario della strage di via d’Amelio.  Sono trascorsi 30 anni.  Paolo Borsellino, Manuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano, che da vivi furono traditi  da vivi, e assassinati, poi furono nuovamente traditi da morti, e finalmente, con buona pace di tutti, sono dimenticati. E non è che in questo trentennio siano mancati i proclami o non si siano schierati in campo le “divisioni del bene”. Non è che in questo trentennio fossero state risparmiate parole di condanna e denuncia di quanto accadde. Sono rimaste le immagini di strade e palazzi sventrati, questo sì. Lo scempio, anche visivo, di quel lontanissimo 19 luglio 1992, è gelosamente custodito nelle teche delle televisioni, che a ondate ricorrenti, anche se con scopi differenti, lo ripropongono.  E neanche è da dire che la magistratura non abbia cercato di fare il suo corso. Ma sono i tempi che stravolgono tutto, se è vero che ancora oggi ci sono processi aperti. Apertissimi. Ma verrebbe da dire: troppo “aperti”, quindi troppo insoluti, visto che sono trascorsi questi fatidici 30 anni. Il fatto è che la retorica poteva andar bene – semmai – per coprire il primo tratto di strada. Poi, sarebbero dovute subentrare le scelte politiche e di rigore, le volontà radicali, le consapevolezze della necessità di voltar pagina per sempre; in una parola sarebbe dovuta subentrare la certezza che un Paese che galleggia su un mare di sangue irrisolto, sarà sempre destinato a un magro futuro. Ma come si fa? Come si poteva fare? Visto e considerato che ormai persino i sassi hanno capito che Paolo Borsellino firmò la sua condanna a morte, quando, messo davanti alla scela tra fuggire e mollare  e abbandonare la ricerca della verità su Falcone e la trattativa  – che era già in atto fra lo Stato e la Mafia –  pronunciò il suo “non ci sto”.  Paolo Borsellino capì che stava firmando il suo atto di morte decidendo di restare e denunciare un accordo con gli stragisti corleonesi che avevano seminato morte. E lo disse alla moglie Agnese. Paolo Borsellino sapeva di essere diventato un intralcio “istituzionale”.  Paolo Borsellino voleva e poteva  con la sua figura limpida, il suo spessore giudiziario, le sue conoscenze investigative, di scoperchiare il calderone ribollente, appena esondato, con la strage di Capaci. E sapeva che la mafia alleato con lo Stato non lo avrebbero concesso. A Roma ne aveva avuto conferma pochi giorni prima della strage. E il giorno dopo sarebbe andato a riferire alla Procura (competente) di Caltanissetta. La mafia ebbe la spiata e non poteva permetterlo. Per questo due 11 settembre, separati appena da appena 57 giorni. Non dovevano esserci intralci alla trattativa. Due 11 settembre per la legalità e il rispetto della legge, il diritto di tutti alla convivenza pacifica; l’esatto contrario, appunto, delle guerre per stragi. Borsellino lo sapeva. E accettò di restare al suo posto. Quel 19 luglio segna un lugubre punto di non ritorno nella nostra storia recente, perché è proprio questa, la cosa più difficile da accettare, della vicenda Borsellino. Perché precede i depistaggi, le menzogne. Perché la cosa difficile da accettare è lo spirito di rassegnazione, di sacrificio, di fine della speranza; Borsellino sapeva di essere il prossimo, di “non avere più tempo”, parole sue. Quel magistrato, cresciuto come Falcone fianco a fianco con i mafiosi, in un quartiere di Palermo, e cresciuto per combatterli, per annientare la logica del disfattismo, della rassegnazione di un Paese, si sentiva ormai abbandonato, accerchiato, condannato.

Quel 19 luglio segna un lugubre punto di non ritorno nella nostra storia recente perché la fine di Borsellino è una morte annunciata, e ancora più tragica per questo motivo. Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino sono all’insegna della raccolta febbrile di appunti, testimonianze, parole appuntate sull’agenda scomparsa; ma sono anche un lungo commiato alla famiglia, agli affetti più cari. Borsellino sapeva di poter ancora scegliere. Avrebbe potuto accettare l’invito ad allontanarsi. Come fece il Sindaco Orlando. Ma, a chi gli riferiva che il tritolo destinato a lui era arrivato in città, che doveva essere prudente, che non doveva lasciare il fianco scoperto rispose con il suo giuramento di sangue. Segnando un lugubre punto di non ritorno nella nostra storia