È la sera del 25 maggio 1992. Dopo l’”attentatuni”, durante il funerale di Falcone e della sua scorta nella Chiesa di San Lorenzo, parte il conto alla rovescia. Paolo Borsellino sembra sentirlo, quel tic-tac che diventa sempre più forte. Borsellino lo sente, e lo dice “ora tocca a me”, mentre a Palermo i sussurri diventano grida: è lui il prossimo. Lui sa che il tempo sta scadendo. Una immensa tela di ragno sta avvolgendo anche lui. Lui è la vittima designata. Lui il morto che cammina. Lo ripete il 25 giugno nel suo ultimo incontro pubblico nella biblioteca di Palermo. Io c’ero. Volto scavato, sigaretta in bocca, sguardo sofferto, distrattamente rivolto il pubblico ripete. “Ora tocca a me, il tempo sta per finire”.
E’ un countdown fatto di lunghi silenzi, che anticipa il boato, il fumo, i depistaggi, le menzogne, i tradimenti, i falsi pentiti, i servizi deviati, le carte truccate. 100 chili di tritolo per lui sono arrivati a Palermo, sono nascosti in una auto rimessa. Tutti lo sanno, i servizi segreti lo sanno ma la notizia gliela tengono nascosta. Il cerchio si è ormai stretto. Potrebbe fuggire, nascondersi, tornare all’Asinara. Ma neppure ci pensa.
La mafia, con la complicità manifesta di pezzi dello Stato che vogliono portare avanti una trattativa i mafiosi, prepara la strage di via d’Amelio che segna il secondo attacco della mafia al cuore dello Stato. Borsellino lo sa. Siamo nel mezzo di un cambiamento complessivo degli equilibri politici in Italia. Dopo la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, il sistema traballava. La lotta alla mafia non era scontata; bisogna calarsi nel clima di quel tempo per capire quanto coraggio umano servisse per combattere quella guerra nell’isolamento generale, accettando di venire considerati dei matti, o peggio assetati di notorietà. Borsellino “l’archivio umano” del maxi processo era l’unico con le conoscenze e l’autorevolezza per indicare con chi mafia si sarebbe alleata. Doveva morire. E lui lo sa.
19 luglio 1992: il tempo è scaduto. Palermo come Beirut. Il tempo di scendere in quella strada in cui nessuno aveva provveduto a mettere un divieto di sosta, di scampanellare al citofono e il tritolo sventra asfalto e palazzi. Con lui muoiono Emanuela Loi, uno scricciolo di 45 chili e 24 anni che è tornata dalle ferie nella sua Cagliari per senso del dovere nonostante non si senta bene; Walter Cosina, un omone di Trieste che volontariamente è piombato nella trincea di Palermo; Agostino Catalano, che ha lasciato a casa due figlie già orfane di madre; Claudio Traina, volontario al suo primo giorno in servizio accanto a Borsellino; Fabio Li Muli, volontario che non lo lasciava mai.
Borsellino era consapevole che questo sarebbe potuto accadere. E nel tempo ho scoperto che tutti sapevano che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso. Lo sapevamo i giornalisti, lo sapevano i palermitani che ne parlavano liberamente nei bar e nei salotti.
Con i corpi dilaniati ancora per strada, tra il fumo nero del massacro e le lamiere contorte, inizia “il mistero” di via D’Amelio. Menzogne, depistaggi, tanti buchi neri della strage “nella più clamorosa falsificazione della storia della giustizia della Repubblica”. Ventinove anni dalla strage molte cose sono state accertate attraverso processi passati in giudicato. Molte altre invece sono rimaste a galleggiare fra verità nascoste, e depistaggi, in quello che fu un atto terroristico mafioso eversivo, che si inserì in una strategia più ampia, un disegno cospirativo volto a colpire l’Italia. In questa storia fatta di menzogne, depistaggi e misteri, anche i buoni si rivelano cattivi. E i cattivi non sono solo i mafiosi che mettono le bombe, ma anche gli investigatori che indagano per scoprire i bombaroli e tuttavia, invece di cercare la verità, si mettono a fabbricare prove false per arrestare le persone sbagliate. Questa è la storia del depistaggio di via D’Amelio.
Oggi – racconta Manfredi Borsellino – “sappiamo di avere assistito a Caltanissetta a un processo farsa”. Borsellino aveva in tasca nomi e cognomi delle “menti” criminali coinvolte con Capaci, e aveva intuito il senso di tutta “l’operazione stragista” ordita da qualcuno più raffinato di Totò Riina, ma affidata ai macellai di Cosa nostra. Borsellino aveva spiegato che sarebbe stato un errore inquadrare la strage di Capaci dentro la classica cornice della lotta tra buoni e cattivi, della coppola mafiosa che si vendica del magistrato-persecutore. Paolo Borsellino sapeva di dover morire, ma andò incontro al suo destino senza sottrarsi, senza indietreggiare. Un sacrificio annunciato affrontato con lucida consapevolezza. 29 anni dopo rispettare questa sua scelta, commemorare il sacrificio di Paolo Borsellino è fare luce, una volta per tutte, su ciò che accadde e sui mandanti. Onorare Borsellino ora e sempre significa pretendere la verità.