Si chiamava Adil, 37enne, cittadino italiano. Padre di 2 figli. Adil era arrivato in Italia dal Marocco per farsi una nuova vita e regalare un futuro dignitoso ai suoi figli e ci era riuscito. Chiedeva migliori condizioni di lavoro per tutti, e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori per gli addetti del magazzino di LIDL E’ morto investito da un povero cristo come lui, un camionista che aveva bisogno di lavorare e paura di fermarsi, durante una manifestazione. Adil chiedeva dignità e diritti. Pensava che le 5 euro l’ora sono troppo poche per vivere. Pensava che non è giusto lavorare 10/12 ore e vedersene riconosciute comunque 8, se va bene. Ma se l’insalata della grande distribuzione deve costare 50 centesimi, e il guadagno milionario delle iene delle società deve restate immutato, è ovvio che la paga sarà di 40 euro lorde al giorno. Adil chiedeva dignità. Chiedeva giusti diritti, chiedeva rispetto delle leggi. Chiedeva umanità. Non aveva chiaro che, nelle notti magiche di Mancini e soci, nell’Italia delle piazze piene di falsa allegria, dove 7 milioni di poveri non esistono, dove l’unico che parla di diritti negati è il Papa, dove passo dopo passo il sindacato si è ritirato ed è scomparso, in un paese dove la mafia impera e l’indifferenza e l’egoismo aumentano, in un Paese dove i giovani chiedono solo di diritto allo spritz, il suo grido di dolore resterà inascoltato.
Non ho letto un giornale, non ho sentito un commentatore dire la verità. Semplice. In questa orribile tragedia convergono fenomeni sociali che nessuno denuncia. Oggi molti lavoratori devono sopportare pessime condizioni di orario e di salario. Spesso inumane. Qui davanti ai nostri occhi. Dietro la nostra porta. Questo crea le condizioni di una guerra tra sfruttati. I fatti sono più che noti, e affondano nella melma dell’indifferenza, della noia e del pregiudizio che ci sommerge. La parola sfruttamento è stata depennata, sembra una bestemmia. Ma la verità è che di questo si tratta: nelle aziende lo sfruttamento è aumentato. Punto. E si muore. Lavoratori italiani, non tutti in regola, e migranti, nessuno in regola, si schiantano dieci ore al giorno per pochi euro, vittime del capitalismo industriale che campa su un trattamento che secoli fa era riservato solo agli schiavi. Questa è semplicemente la realtà, che fa da sfondo all’ennesima morte del lavoratore Adil Belakhdim, come di Luana D’Orazio, come di centinaia di altri. che noi, pieni solo del nostro egoismo non vediamo. Chi nega questo, nega e offende questa morte.
La logica dello sfruttamento, che nessuna legge è stata in grado di limitare è ovviamente la prima responsabile di queste tragedie. E questa logica è diventata la nostra quotidianità. Quindi questi lavoratori li abbiamo uccisi noi che non facciamo nulla. E compriamo il latte a 50 centesimi.
I profitti di alcune imprese si basano sulla compressione spasmodica della sicurezza, dei salari, e sulla durata abnorme della giornata di lavoro. L’illegalità estrema delle condizioni di lavoro è alla base di quello che si può definire come un vero e proprio modo di produzione schiavistico. Ma a questo appartengono anche la gestione dei trasporti e le condizioni di vita nelle aziende. Si muore sul lavoro e si rischia la morte per lavorare.
La cultura – chiamiamola così – del governo in carica è del tutto coerente con un sistema di sfruttamento del lavoro che un certo illuminismo riteneva superato da secoli. Dall’altra, il confronto sul luogo di lavoro è stato sostituito, nel corso degli ultimi anni, e con il contributo decisivo del riformismo paraculo, da conflitti emotivi, basati sull’esistenza di un nemico simbolico: lo straniero, il migrante, il “negro” che preme alle porte. Fino ad accettare come normale che una parte dell’umanità diventasse marginale, superflua, eccedente, costretta a vivere con 25 euro pulite al giorno.
Finché, si spera, i sostenitori di questa “cultura” cominceranno ad accorgersi del tranello in cui sono caduti.