Quando Borrelli assegno l’inchiesta a Di Pietro non immaginava fino in fondo dove si sarebbe arrivati. Fino ad allora solo piccoli processi per droga, patenti facili, poca roba. Di Pietro era uno sconosciuto eppure l’archetipo dell’outsider furbo e deciso a salire in alto. Stava nella stanza 254 della Procura, esattamente all’altro capo del lunghissimo corridoio che si dipanava dagli uffici del procuratore Borrelli: un segno di marginalità. Eppure Tonino ne faceva anche un tratto di indipendenza. Faceva il Bertoldo, il contadino di Montenero di Bisaccia emigrato al nord, laureato chissà come mentre faceva mille lavori.

Quando Craxi credendo di salvarsi definì Mario Chiesa con il famoso epiteto di “mariuolo”, dunque lo scaricò come una mela marcia isolata, il contadino “bertoldo” capì che era quello il momento per attaccare: Chiesa parlò per sette giorni. E Di Pietro cominciò gli arresti. Prima gli imprenditori che denunciarono gli elemosinieri dei partiti. Poi i politici. Entravano a San Vittore, confessavano, uscivano. Se non parlavano non uscivano. Oramai era chiaro: l’obiettivo era arrivare a Craxi. In un contesto dove già si vedevano all’opera i primi avvelenatori di pozzi, faccendieri pronti a tutto pur di uscire, cialtroni da poco, spie a mezzo servizio. Il muro del silenzio si incrinò. Un’autentica reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista. E tuttavia perfettamente legali. Si potrà discutere sull’accettabilità di una procedura del genere.

Borrelli capì che Tonino non poteva restare solo, e gli affiancò due pm di cui aveva grande fiducia, Colombo un colto cattolico di sinistra, e Piercamillo Vichinsky Davigo un giurista affilato, incorruttibile, prodotto di una destra perbenista e militaresca. Lo chiamavano Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. A conoscerlo, lo si sarebbe detto più simile a Javert, il drammatico sbirro dei Miserabili. “Non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti”, usava dire, ed era difficile capire fin dove scherzasse. Dietro di loro, il procuratore aggiunto Gerardo Jerry D’Ambrosio, amico di Galli e Alessandrini ammazzati dal terrorismo rosso. Si aprì ufficialmente la caccia a Craxi, che presero a chiamare “Cinghialone”.

Si aprì una stagione buia per il diritto: ogni giorno una processione di avvocati “accompagnatori” che in barba alla loro deontologia salivano in procura non per difendere il cliente, ma soltanto per farlo confessare in fretta. Era  ciò che i pm volevano.  Il 15 dicembre del ’92 si levarono infine grida di giubilo in sala stampa quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia.  E fu un crescendo di atrocità e suicidi fino  alla sera del 30 aprile del 1993 quando, i manifestanti consideravano Craxi il simbolo più importante del malcostume e della corruzione diffusa in tutto il paese, lo attesero davanti ad un hotel  e, in diretta Tv lo assaltarono prima con i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla  teneva in mano banconote da mille lire e cantava “Bettino vuoi pure queste?”. Secondo  molti  quell’episodio, quella scena non mise fine soltanto alla carriera di Craxi come uomo politico, ma a un’intera stagione politica. Come nel libro “La pelle”  di Curzio Malaparte – che bisognerebbe far laggere a scuola obbligatoriamente  il Paese si  trasforma in un inferno di abiezione, ogni  città offre visioni di un osceno, straziante orrore. La  politica è “la peste” – è questa l’indicibile verità – è nella mano pietosa e fraterna dei liberatori, i magistrati,  null’altro rimane allora se non la lotta per salvare il Paese: non l’anima persa, o l’onore perso, non la libertà, non la giustizia, ma la “schifosa pelle”. Il Paese ci metterà un bel pò per svegliarsi, per uscire dal dolore, e capire che non è così. Tutto cambio per non cambiare nulla.  

Dietro il pool Mani pulite, l’Italia impazzì. Nascono comitati, si fanno fiaccolate, manifestazioni di sostegno sotto Palazzo di Giustizia al grido di “Tonino non mollare!”, si mescolano le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini e dei primi leghisti che entrano in parlamento con il cappio in mano. Va a ruba il poster degli Intoccabili con le facce del pool in fotomontaggio, due passi in Galleria e l’evento diventa un bagno di folla. In capo a un anno le televisioni renderanno permanente questo show. A lungo il Cavaliere tentò di farli suoi, come fuoriclasse stranieri che è meglio giochino nella tua squadra.  Berlusconi “tentò” Di Pietro offrendogli un ministero nel suo governo.  Andò in scena Tanti voltagabbana che, dopo avere votato e omaggiato potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire come coloro che stavano mozzandone la testa. E tuttavia c’era anche altro, una voglia di cambiare genuina, poi andata persa.

Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader di partito. Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati, lasciò circolare voci insistenti sul suo “poker contro Di Pietro”, un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe, anzi non lo era o, addirittura, un poco di buono. Va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi, fino al suo abbandono della magistratura, con la toga sfilata per l’ultima volta davanti alle telecamere, in diretta come tutto quello che avveniva ormai in tribunale, il 6 dicembre ’94. Una storia finisce ma l’inchiesta è ancora in piedi.