19 luglio 2022: il ricordo, la memoria, i lunghi silenzi, i depistaggi, le menzogne, i tradimenti, i falsi pentiti, i servizi deviati, le carte truccate. Si. 29 anni di carte truccate. Con i corpi dilaniati ancora per strada,  tra il fumo nero del massacro e le lamiere contorte inizia “il mistero” di via D’Amelio. Menzogne, depistaggi, tanti buchi neri della strage nella più clamorosa falsificazione della storia della giustizia della Repubblica”. Ventinove anni dalla strage molte cose sono state accertate attraverso processi passati in giudicato. Molte altre invece sono rimaste a galleggiare fra verità nascoste, e depistaggi, in quello che fu un atto terroristico mafioso eversivo, che si inserì in una strategia più ampia, un disegno cospirativo volto a colpire l’Italia.  In questa storia fatta di menzogne, depistaggi e misteri, anche i buoni si rivelano cattivi. E i cattivi non sono solo i mafiosi che mettono le bombe, ma anche gli investigatori che indagano per scoprire i bombaroli e tuttavia, invece di cercare la verità, si mettono a fabbricare prove false per arrestare le persone sbagliate. E vengono condannati ma “prescrizionati ” perchè chi è rimasto in silenzio non ha fatto un solo giorno di carcere. Questa è la storia del depistaggio di via D’Amelio.

19 luglio 1992: quando è morto Paolo Emanuele Borsellino ? Siciliano, magistrato della Repubblica, figlio di un farmacista e padre di tre figli, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia, tradito e venduto da uno Stato che non ha mosso un dito per salvarlo?  Paolo Borsellino è morto il 19 luglio in via Mariano D’Amelio o era già morto il 23 maggio a Capaci, quando alle 17,58 l’autostrada si è aperta e il suo amico Giovanni Falcone se n’è andato ?

Non è una morte come le altre quella di Paolo Borsellino, per le riflessioni che impone e che vanno ben oltre quello che accadde quel terribile 19 luglio di  trenta anni fa. Aveva capito Paolo che il calo di tensione nella lotta alla mafia da lui denunciato non era fisiologico. Non era una bonaria sottovalutazione del fenomeno criminale. Era ben altro, come molti anni dopo si è riusciti a comprendere e dimostrare. Certamente oggi ci vorrebbe uno sforzo collettivo per spiegare a Paolo le ragioni per le quali non siamo riusciti ancora, nonostante l’impegno della magistratura, a convincere gli organi centrali dello Stato che bisogna fare scelte politiche nette, destinate ad avviare una seria e duratura azione di contrasto al crimine organizzato . Alla rapidità di movimento e di pensiero della mafia del terzo millennio, dobbiamo contrapporre strumenti normativi evoluti, in grado di consentire la individuazione non soltanto dei soldati ma soprattutto delle nuove leve di quelle “menti raffinatissime” che hanno voluto la sua morte. Intanto, bisognerebbe chiedere scusa a Paolo per le troppe volte in cui sono stati distorti i suoi insegnamenti . Paolo oggi avrebbe dato lezioni di modernità, consapevole che la mafia, vero nemico del nostro Paese, non va mai banalizzata. Non avrebbe mai sminuito la reale forza di una organizzazione viva e vitale, consapevole che la sottovalutazione del fenomeno è il modo peggiore di avviare una seria strategia di contrasto. A chi mi chiede come ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino, che per servire lo Stato è morto come Giovanni Falcone, tanti altri magistrati ed appartenenti alle forze dell’ordine, rispondo che la strada da seguire parte dal coraggio di affermare che la lotta alla mafia non è una priorità dello Stato italiano. Occorre dire chiaramente che la mafia fa comodo allo Stato. Non è più una priorità batterla, nonostante la consapevolezza che la criminalità organizzata metta a rischio la stessa tenuta democratica della nostra nazione, nonostante sia evidente che la mafia sia il più evoluto strumento di doping finanziario del sistema economico mondiale, per la sua capacità di arricchire ristrette oligarchie criminali a danno di ampie fasce di economia legale. La lotta alla mafia non è una priorità semplicemente perché richiede una volontà politica.
Mi chiedo, se questo è vero, che senso abbia gioire dei risultati giudiziari raggiunti, visto che siamo comunque costretti a giocare una partita che non possiamo vincere. Vincere la guerra contro la mafia è ben altra cosa, provoca ben altri effetti sul benessere collettivo ed è l’unico risultato in grado di onorare fino in fondo la memoria di Paolo, di Giovanni e di tutti coloro i quali hanno vissuto da uomini dello Stato, pur quando sono rimasti soli a combattere contro quel mostro gigantesco che li ha uccisi. Non si creino i presupposti per generare altre solitudini, perché quando si è soli si muore. Nessuno ha bisogno di cercare conferme ulteriori. È importate ricordare che Paolo non è morto invano: il 19 luglio 1992 è il giorno in cui tutto ha avuto inizio, non quello in cui tutto è finito.