Sono iniziati gli esami di maturità. Niente scritti. Solo una prova orale. Sessanta minuti in cui far valere un percorso lungo cinque anni. Un’ora per illustrare le proprie conoscenze e, quel che è più difficile, per sconfiggere il demone della paura, se non del panico vero e proprio in certi casi. Come lo fu per me e per tutti,  queste giornate rimarranno scritte nella memoria, tra improvvise perdite di fiducia e rinnovati slanci di entusiasmo, tra chi non vede l’ora di gettarsi di fronte alla commissione d’esame per togliersi il pensiero e chi preferirebbe ancora un po’ di tempo per riprendere quella materia che in testa proprio non vuole entrare. Uno a uno verranno chiamati alla prova, il loro destino si farà, in molti scopriranno che il vero esame era meno peggio del previsto, anzi, tanti di loro rimarranno sorpresi dalla velocità con cui tutto si è consumato. Nel corso dell’ultimo anno ho avuto la grazia di incontrarne a migliaia in rete.

Un esame che verrà vissuto dai giovani ( e dalle famiglie) nello stato d’animo sospeso e guardingo degli italiani, abituati a mesi di dentro e fuori, le notizie sull’estendersi della zona bianca e dello scudo vaccinale all’espansione del virus stanno sortendo l’effetto di un ricostituente. Non più l’affacciarsi provvisorio su brandelli di libertà perduta, anche nel modo scomposto di chi vuole prendersi quel che può prima che ‘chiudano tutto’, ma la prudente fiducia che da qui in avanti la strada (almeno quella ‘di casa’) non sarà più duramente in salita.

I vaccini sembrano funzionare, il contagio ripiega non trovando più come prima bersagli illimitati da attaccare. E in giro è tutto un rialzare saracinesche. Le ferite ci sono, molte in evidenza – quante vetrine tristemente sbarrate, quanti posti di lavoro solo congelati dal blocco dei licenziamenti… –, altre le conosciamo – il disagio di tanti ragazzi, la paura degli anziani –, di altre ancora temiamo ci arrivi presto il conto, come per le troppe terapie rinviate sine die quando le malattie invece non attendono. Ma ovunque si avverte quel clima di ritrovata confidenza col presente e col futuro.

Tocca a noi, adesso, e forse davvero per non doversi più voltare indietro a ricalcare con i passi sentieri già percorsi. Ma proprio per questo serve la consapevolezza che non siamo gli stessi di ‘prima’, nulla e nessuno lo è. Ci sarà tempo per capirlo, ma questa porta ogni giorno un po’ più aperta su quel che saremo non possiamo varcarla davvero senza tenerci stretto quel che abbiamo imparato dalla dura lezione della pandemia. Che cosa? La necessità vitale di sperare anche dentro i giorni più bui, certo. Il valore assoluto della vita, di ogni vita, anche quella ritenuta sbrigativamente meno rilevante. E il dovere di proteggere i più fragili, dato di fatto che ci si è mostrato con un’evidenza tale da imporci di espellere idealmente dalla nostra società la «cultura dello scarto» (e invece, in quanti Paesi i Parlamenti sono assurdamente impegnati a discutere di eutanasia legale, il nostro incluso). E ancora: il bene di tutti anteposto a quello personale, o le relazioni umane che restano il solo fatto essenziale quando il resto sembra venir meno.

Ma più di tutto emerge in quest’alba così a lungo attesa la necessità di sentirsi ed essere uniti, vicini, solidali per riprendere una strada comune, così come condiviso è stato il percorso sul quale per quasi un anno e mezzo ci siamo ritrovati, oltre qualunque distinzione. Abbiamo visto che senza questa coscienza comunitaria non ne saremmo usciti, non ne usciremo davvero. E ora serve guardarsi dalla tentazione di andare ognuno per proprio conto all’inseguimento di quel che riteniamo di aver perduto.

Ci sono parole che arrivano al momento giusto, e che vanno salvate dal rincorrersi di giorni e notizie. Come quelle del capo dello Stato Mattarella, che richiama il Paese al «senso di comunità » e a un «nuovo equilibrio», chiedendosi di cosa la nostra società hanno urgente bisogno e  risponde, senza esitazione, di “riconciliazione”. Sintonia di analisi e di intenti: è la coesione del tessuto umano che ha permesso al Paese di rivedere la luce, ed è ora la condizione perché non si disperda il senso di una ricostruzione collettiva d’importanza non inferiore a quella post-bellica. Ma ad alimentare questo spirito comunitario servono persone riconciliate, capaci cioè di rinunciare a qualcosa di proprio davanti all’evidenza dell’interesse di tutti. Non è il tempo delle rivendicazioni identitarie, di vessilli simbolici piantati su provvedimenti o conquiste, di presunte superiorità morali, di ragioni e torti asseriti. Vale per la società, vale per ognuno di noi, per tutti quelli che hanno mostrato di saper sentire tutta intera la responsabilità e sono chiamati ora a mostrarsi cittadini riconciliati, dentro il bisogno di relazioni sincere e leali, di un riconoscersi e rispettarsi reciproco. Di qui passa la straordinaria chance di potersi lasciarci alle spalle, senza dimenticarne le lezioni, una crisi che ci ha vagliati anche per farci crescere. Ne saremo capaci?