17 febbraio 1992: Ettore Botti, capocronista del Corriere, chiamò tutti al telefono di casa, perché i cellulari erano giganteschi e pesanti. Da quel momento per  3 anni l’inchiesta sarebbe diventata un lavoro senza pausa  per  i cronisti di Milano, e non solo,  dalle nove di mattina alle due di notte. Il mio amico Ettore, era un vero giornalista. Sposato con Isabella Bossi Fedrigotti era uno freddo, preciso, determinato, entrato giovanissimo nella parte dei giornalisti d’assalto, era un napoletano che aveva fatto strada a Milano: creativo, iracondo, detestava intrallazzi e intrallazzatori e aveva puntato già da un pezzo la fasulla icona della metropoli da bere, che nascondeva party alla coca e tanta, tanta politica marcia. A Milano giravano del resto da anni barzellette sui socialisti ladri, e finivano per insozzare così la migliore tradizione d’una città governata per decenni da socialisti perbene, quelli come Aniasi, che avevano fatto la Resistenza, creato una metropoli operosa e aperta, incoraggiato una cultura di cui Streheler e il Piccolo Teatro erano solo la manifestazione più visibile. Si intuiva una corruzione sistemica, si parlava a mezza voce di una foto di Craxi col boss Epaminonda. Nelle notti di Brera balordi e politici, fandonie e perdizioni si mischiavano in un cocktail fascinoso come una canzone della Vanoni.

Le “migliori imprese” d’Italia, un centinaio, erano tutte coinvolte nel sistema. Il sistema della dazione ambientale, dove era saltato il confine tra corruzione e concussione, e chi doveva pagare non aspettava nemmeno la richiesta perché sapeva che in quell’ambiente così facevano tutti. Ma i soldi stavano finendo, e con essi andava logorandosi il patto che tutto teneva. Già nel 1987, nel nucleo operativo dei carabinieri di via Moscova lavorava un tenente toscano con una faccia da bambino che gli faceva dimostrare persino meno della sua età. Si chiamava Sergio De Caprio. Tutta Italia l’avrebbe conosciuto più tardi come il Capitano Ultimo capace di piantare una Beretta sulla faccia di Totò Riina. In Procura c’era una giovane pm, Ilda la Rossa Boccassini. Ma, pochi lo sanno, l’inchiesta “Mani pulite” non nacque –come si crede- da una indagine della Guardia di Finanza ma da una segnalazione di Laura Sala che di Mario Chiesa era la moglie gelosa e separata, che raccoglieva per la causa civile carte bancarie. E scoprì “le mazzette” che sarebbero poi diventate micidiali in mano agli investigatori. Tutto nacque così. E l’inchiesta – oggi impossibile- nacque perché il clima politico e morale era diverso. Eravamo giovani, pensavamo che il bene stesse tutto di qua e il male tutto di là. Mani pulite la vedemmo così, dall’inizio e per molto tempo. Ci chiedevamo se può esserci anche una politica perbene al servizio delle istituzioni e dei cittadini e non degli interessi illeciti, propri o di partito.

È stata un’inchiesta giudiziaria o un processo politico? Il racconto di un’Italia asfissiata dalle tangenti o una tragedia che ha distrutto uomini e partiti ? E’ stata la catarsi e la fine della Prima Repubblica travolta da uno spaventoso degrado morale e dall’indignazione dei cittadini? O una titanica battaglia di pochi contro il marcio di un sistema in cui la mazzetta era accettata, incoraggiata, considerata prassi in ogni settore ?

Mani pulite è stata tutto questo e altro ancora, ed è per questo che, trent’anni dopo, la lettura di quei giorni rimane controversa. Per questo la rivoluzione è finita in una restaurazione, la corruzione dilaga e prospera come nel 1992, le zone d’ombra restano nella politica e negli affari. Partiti e istituzioni non hanno fatto nulla (oppure troppo poco) per creare anticorpi al malaffare che inquina il Paese, distruggendo merito e competitività. Eppure doveva essere questa la vera risposta a Tangentopoli, un sussulto di onestà e di civismo per mettersi alle spalle definitivamente la stagione dell’illegalità. La casta in troppi casi si è invece riprodotta, corrotti, corruttori, dispensatori di favori dominano e comandano come allora. Mafiosi, ignoranti, servi e utili idioti li troviamo ancora in ogni dove come allora, imitando e aggiornando le pratiche malsane di chi in quegli anni è finito sotto accusa e sotto processo.

Nell’Italia che vuole farcela, che chiede uno scatto d’orgoglio per uscire da una crisi, può essere utile rileggere fatti e cronache di quella stagione. Per incoraggiare i tanti che credono nel valore dell’impegno. Mario Chiesa sembrava un cialtrone isolato, un magliaro vizioso. Dal Pio Albergo Trivulzio, la “Baggina” per la sua collocazione nella periferia grigia e dignitosa di Baggio, questo manager svelto di mano aveva distribuito case a prezzi stracciati ad amici e amici degli amici, giornalisti inclusi, e aveva tenuto la borsa aperta per le bustarelle socialiste. Invece era uno dei tanti, la longa mano di un sistema.  Dicevano che era un degenerato . Una vicenda personale. Si scoprì invece che era espressione di una “collettività”, di un modo di fare, di un non detto che coinvolgeva tutti e che tutti conoscevano. Da li, da una moglie gelosa nasce la storia che cambiò tutto per non cambiare niente.