Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. Ci hanno insegnato che la legalità è un fatto di civiltà, di giustizia sociale. Ci ha insegnato che bisogna vivere, non lasciarsi vivere. Non possiamo ricordarlo solo il 23 maggio. La storia del nostro Paese è stata per decenni disseminata di verità incomplete, di macchinazioni e depistaggi costruiti a tavolino, di convitati di pietra dai nomi appena sussurrati o impronunciabili. Oggi – potrà suonare ripetitivo e in qualche modo, purtroppo, lo è — ma nel ventinovesimo anniversario del Premio Borsellino e della strage di via D’Amelio (come del resto in quella di Capaci, che la precedette di sole otto settimane) anche alla luce delle recenti sentenze, c’è una sola cosa che conta: la verità.
Le stragi Falcone e Borsellino, e poi quelle di Roma, Milano e Firenze, restano il grande buco nero della giustizia italiana. Il Premio continua a vivere e a proporre questi temi a 29 anni dalla strage di Capaci – dalla morte di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e degli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo – anche perché c’è il rischio è una normalizzazione del pericolo mafioso. Rischio del pensare che una mafia meno cruenta non rappresenti più un pericolo, laddove è vero il contrario: una mafia organizzata come un’impresa, insediata nel tessuto economico, capace di arricchirsi nell’ombra, è più forte di quando imponeva il suo potere con le armi e le stragi. Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone e i martiri di Capaci – senza dimenticare Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i tre agenti sopravvissuti, indelebilmente feriti nell’anima – significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità. Non c’è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali – il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria – la legalità rischia di diventare un principio di esclusione e discriminazione, come abbiamo visto in questi anni nella gestione del fenomeno migratorio, dove certe norme non differivano, per impronta e spirito, dalle leggi razziali del fascismo. Mai si è parlato di legalità come in questi 29 anni, e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, malata e diseguale, come la pandemia sta impietosamente evidenziando. Dimostrazione che della parola legalità è stato fatto un abuso retorico, per certi versi “sedativo”. Molti dicono “legalità” per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta. Si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come lasciapassare, come foglia di fico anche di misfatti e porcherie. Ecco allora che – senza nulla togliere all’ammirevole impegno di tante scuole, presidi, insegnanti – l’espressione “educazione alla legalità” andrebbe arricchita con la parola responsabilità. È la responsabilità l’architrave di ogni processo educativo, perché responsabilità vuol dire imparare ad essere liberi con gli altri e per gli altri, non contro di loro. Giovanni Falcone sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine perché come Paolo Borsellino, Rosario Livatino e tutti i magistrati che hanno servito la democrazia lottando contro poteri criminali ma anche corrotti o ingiusti – esorbitanti i limiti della Costituzione – aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano. Questa è l’eredità che ci hanno lasciato. Un’eredità etica, onerosa. Non possiamo ricordare Falcone e Borsellino solo nella ricorrenza di Capaci, dobbiamo fare della sua memoria il nostro impegno a interrogarci, essere onesti, avere il coraggio di fare scelte scomode, di rifiutare i compromessi. E poi partecipare, contribuire al bene comune, essere cittadini fino in fondo, come ci chiede la Costituzione. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. Ci hanno insegnato che la legalità è un fatto di civiltà, di giustizia sociale. Ci ha insegnato che bisogna vivere, non lasciarsi vivere. C’è chi ha raccolto questa eredità: un’Italia che ha preso coscienza, che non pensa più che le mafie siano solo un problema del Sud e che combatterle sia solo un compito dei magistrati e delle forze di polizia. Ma ci sono ancora parti di Italia che si nascondono, complici o silenti. C’è ancora troppa indifferenza, troppo egoismo, troppa delega. C’è un’antimafia a volte di facciata e c’è un male – anzi una peste, come la chiamò il cardinale Martini – chiamata corruzione. Peste che intreccia tre varianti del male: crimine organizzato, crimine politico e crimine economico. Ecco allora che questo ventinovesimo anniversario deve segnare un punto di svolta, un impegno più grande e consapevole. Non occorrono eroismi: occorre umiltà, tenacia, passione per il bene comune. Occorre il coraggio più difficile e più necessario: quello di rispondere ogni giorno alla propria coscienza