Non vorrei davvero aggiungermi al clamore fatto di valutazioni, considerazioni, polemiche e giudizi nei confronti di questa cooperante volontaria milanese, ma le “frecciate” che vengono scagliate sono talmente in numero impressionante, che mi vedo costretto, (forse esprimendomi come “voce fuori dal coro”) ad esortare chi mi legge che sarebbe davvero saggio attuare la regola del silenzio.
Partendo da un dato che è stato scarsamente analizzato riguardo alla vicenda che ha coinvolto questa ragazza: il fattore tempo.
Ci rendiamo conto di quanto sia impressionante subire una limitazione della propria libertà per diciotto mesi? Abbiamo idea di cosa rappresenti la indeterminatezza che scaturisce dal non avere punti di riferimento certi, considerato che Silvia ha dovuto trasmigrare in quattro covi diversi ?
Abbiamo cognizione di quello che significhi per una ventiquattrenne, sicuramente altruista e generosa nell’animo, venire sradicata da una sua opera di assistenza a bambini che la arricchivano di positività ed essere obbligata a seguire volontà di altri?
Si badi bene: nulla a che vedere con l’inizio di una detenzione in un carcere del nostro Paese che ha un inizio ed un termine, reso noto al condannato in ogni suo dettaglio.
Noi abbiamo due percezioni riferite al tempo: quello proiettato verso un obiettivo, che è un progetto di vita, per il quale, per un determinato periodo, dedichiamo ogni nostra energia superiore.
A questo si affianca un’altra tipologia di tempo: quella delle azioni e dei compiti ordinari che svolgiamo, che sommati insieme, concorreranno al compimento del progetto sopra indicato, ma in aggiunta a tanti altri adempimenti che assolviamo per una gestione pratica e concreta della nostra vita.
Sono due tempi talmente differenziati anche se in italiano viene usata una medesima parola, che al contrario i greci antichi, per differenziarli, chiamavano il primo “Kairos” ed il secondo “Kronos” : cioè un tempo per realizzare finalità, coronare sogni, attuare obiettivi ed un altro tempo da impiegare per assolvere funzioni spicciole, adempimenti da sbrigare, commissioni da evadere, che costituiscono una necessità ma che non coincidono con noi, certamente non ci rappresentano.
Ora nel caso di Silvia Romano, il tempo “Kairos” è stato soppresso: la sua gioiosa vitalità che esprimeva con i bambini a cui si dedicava nella sua opera di volontariato è stata certamente annullata. La sua mente ha dovuto adattarsi ad uno stile di vita che era quella di “prigioniera” costretta a soggiacere a disegni imperscrutabili dei suoi carcerieri.
Nulla è dato conoscere, se non sommariamente, del tempo trascorso (nella misura di 535 giorni!).
Una persona di altra cultura ed in possesso di una visione del rapporto con l’altro da sé assolutamente in antitesi rispetto a coloro che l’avevano segregata, nel momento in cui ha la possibilità di impiegare il tempo “Kronos” per apprendere qualche parola araba e per leggere alcune pagine del Corano, ha sicuramente, in una condizione certamente drammatica, recuperato un senso ed un significato di vita che aveva smarrito ed a queste piccole opportunità, avrà voluto anche aggrapparsi.
E’ umano tutto questo: rientra in uno schema arcaico della nostra mente, che si chiama “meccanismo di difesa”.
Silvia, poi avrà persino potuto condividere qualche “sura” nella lettura del Corano e, nel tempo, arrivare a sviluppare dei riconoscimenti verso questa religione, senza peraltro poterla mettere al confronto con gli altri culti.
Si è strutturato un “sano processo di omologazione” che ha il nome di “adattamento”.
Cosa vogliamo giudicare? Chi siamo noi per valutare? Stavamo trascorrendo, noi con lei, quei 535 giorni di libertà negata?
La risposta è “NO!”: quello che conta è che una cittadina italiana è stata strappata dalle mani dei suoi rapitori e l’intelligence italiana ha portato a termine in modo estremamente positivo questa operazione.
Tutto il resto non conta.
Forse dovremmo riflettere sul nostro modo ansioso di fronteggiare la indeterminatezza in tempo di coronavirus, pur confortevolmente circondati da persone ed oggetti rassicuranti e metterlo al cospetto di una giovane volontaria che aveva perso ogni punto di riferimento.
Trascorrendo diciotto mesi della sua vita che l’hanno segnata per sempre.
di Ernesto Albanello