Il decennale del sisma dell’aquilano, che ha colpito duramente anche i nostri territori, è un’occasione di riflessione su quale potrà essere il futuro della nostra città, ulteriormente segnata dal sisma del 2016.

Teramo cerca, faticosamente, di riconquistare il suo ruolo di città Capoluogo. Il progetto di recupero dell’ex ospedale psichiatrico per ubicarvi “la cittadella della cultura”; il progetto di riqualificazione dell’ex rettorato, già ex ospedale, con la trasformazione in casa dello studente; il progetto di recupero dell’ex teatro romano; la riqualificazione della viabilità del centro storico… tutte importanti occasioni per la rinascita della città e per la riconquista (o, forse è meglio dire, conquista), di un ruolo di centro culturale e universitario.

Ma, anche volendo trascurare il fatto che molti di questi progetti, ad oggi, sono “estranei” alla città, non avendo cercato quel percorso partecipativo che tanti hanno invece, a gran voce, chiesto per il recupero del Teatro Romano (tutto tace, ad esempio, per i progetti elaborati dall’Università e dall’ADSU), viene da chiedersi se, qualcuno, si sia posto il problema di come sarà la città del domani, anche grazie la realizzazione di queste opere.

Chi si occupa, anche marginalmente, di pianificazione (materia, in realtà, non più di moda, in quanto considerata “rallentante” rispetto al “fare”) sa bene che operare su singole parti di città, o di territori, senza preoccuparsi di cosa il singolo intervento può comportare su scala più ampia, spesso vanifica gli obiettivi dell’opera o, peggio, comporta un danno ad ampio raggio.

Il caso “sottopasso di Cartecchio” dovrebbe insegnarci che, se si pensa di risolvere un problema senza considerare il contesto, magari se ne creano altri dieci (a proposito, lì, di sottopassi pedonali, forse, ce ne vorrebbero due, uno ad est e l’altro ad ovest, per non tagliare fuori dal traffico pedonale un’intero quartiere), ma, purtroppo, sembra che nessuno si interroghi su quali conseguenze, positive e/o negative, portino le singole scelte fatte oggi.

Teramo, in realtà, ha una storia di grandi opere annunciate e mai realizzate, forse anche perché non pianificate rispetto al contesto di riferimento. Ricordate il Centro Fieristico alla Gammarana, con tanto di filovia che collegava l’Osservatorio di Collurania con quello che, all’interno degli ex capannoni della Villeroy e Boch, doveva diventare il Museo della Scienza? E l’attuale “Parco della Scienza”? E la rete museale (progetto CULT) che vedeva nell’attuale ipogeo un’elemento di congiunzione, non solo fisico, tra Pinacoteca e L’ARCA (Laboratorio delle Arti Contemporanee)? E l’arretramento, anzi no, l’interramento… pardon, il prolungamento della ferrovia con tanto di spostamento della stazione ferroviaria? E il recupero dell’ex fornace Cona? E il riuso dell’ex complesso Regina Margherita? E la trasformazione dell’ex Ospedaletto?  E… potrei continuare all’infinito.

Tutti progetti interessanti, a volte visionari e innovativi, certo tutti utili, se solo fossero stati inseriti in una idea generale di città. Una città che ha decine di contenitori vuoti o sottoutilizzati, quasi tutti di proprietà pubblica, mentre si continua a costruire sulle colline svuotando il centro di ulteriori servizi. Una città con un Piano Regolatore non più attuale, che avrebbe dovuto attuarsi anche con schede per interventi “strategici”, arenatisi poi sotto il peso della crisi economica degli ultimi anni. Una città che “subisce” proposte progettuali senza riuscire ad indirizzarle, migliorandone la possibilità di attuazione.

Serve, quindi, urgentemente, la definizione di una strategia urbana che coordini gli interventi in atto e indirizzi quelli futuri, tenendo conto delle componenti ambientali (un piano del verde urbano, integrato con il PRG, è ormai indispensabile), di quelle relative alla mobilità (il Piano Urbano della Mobilità Sostenibile non è più rinviabile), di quelle urbanistico-edilizie, mettendo in rete servizi e spazi pubblici (prevedendo la priorità del recupero del patrimonio edilizio dismesso e degli spazi aperti) e coordinando le iniziative dei privati.

La zona della Gammarana, con gli edifici ex Villeroy sottoutilizzati, la stazione ferroviaria, gli impianti sportivi, i grossi interventi dei privati, ha urgente bisogno di azioni che riorganizzino il quartiere in funzione di quello che sta accadendo e che potrebbe accadere in futuro.

Le strutture universitarie devono essere collegate anche fisicamente, magari con un percorso ciclabile e pedonale, prima ancora che meccanizzato (siamo sicuri che la filovia sia l’idea giusta, e convenga riprenderla?), ma soprattutto funzionalmente.

Il sistema dei trasporti pubblici locali e della mobilità, urbana ed extraurbana, va rivisto anche in previsione dell’attuazione degli interventi di recupero ex manicomio ed ex rettorato, perché quelle parti di città non saranno più le stesse e avranno bisogno di nuovi servizi.

Il patrimonio edilizio pubblico va riqualificato, avendo anche il coraggio (via Longo docet) di mettere in campo azioni di sostituzione edilizia che cambino il volto di intere parti di città, senza limitarsi a maquillage insignificanti.

Ma, soprattutto, quanto sopra, e molto altro ancora, va PIANIFICATO, cioè va PENSATO, e non per singole opere ma con una visione territoriale più ampia, che vada anche oltre i confini amministrativi della nostra città.

Altrimenti, temo, per i prossimi anni parleremo ancora di come potrebbe essere grande Teramo.