Chi pensa che Diego Armando Maradona sia solo “calcio” è fuori strada. L’argentino non è stato solo il giocatore più grande della storia, è stato molto di più, è stato l’uomo che non si è nascosto dietro il campione. È stato tecnica e scaltrezza, eccezionalità è umanità ma anche odio e amore, emozioni forti e cadute rumorose, grandezza e fragilità, paradiso e inferno, eccezionalità e “normalità”, forza e debolezza, grandezza e miseria, ragione e sentimento, gioia e dolore, campione che è rimasto uomo, fino in fondo, fino alla fine con i suoi pregi e difetti. Questo è quello che rende Maradona unico.

Prendere o lasciare, Maradona era questo. Non un compromesso, non il campione che nasconde l’uomo con tutti i suoi limiti. Parlando del Pibe de Oro i due aspetti non si possono dividere, sono due facce della stessa medaglia. Maradona ha regalato sogni toccando il cielo con un dito. Quel dito che gli è servito per spingere il pallone con la “mano dei Dios” . Per questo tutto il mondo ha pianto per lui. Per questo il suo essere  è destinato a vivere per sempre. Per questo ho voluto raccoglierne il ricordo. Perché non dimentico che todo el  pueblo cantò….

Una fotografia veramente terrificante di Diego Armando Maradona apre l’ultimo libro di Leo Nodari dedicato a Diego Armando Maradona che sarà presentato alla parrocchia di Caivano (Napoli) dal prete anticamorra  Padre Maurizio Patriciello  e dal testimone di giustizia napoletano Luigi Leonardi che, con la sua testimonianza, ha fatto arrestare i boss camorristici napoletani.  E per questo ora vive sotto scorta. L’intero incasso della vendita del libro servirà per le attività sociali della parrocchia al parco verde di Caivano.

Anno 2000, è l’anno del suo primo attacco di cuore. La mano di Dio indossa un capellino da baseball messo alla rovescia che fa vedere una ciocca di capelli sporchi, tinti alla punk, occhiali scuri, una maglietta da batterista senza maniche, che lascia scoperto tutto il tatuaggio del “Che” Guevara sulla sua spalla destra e un sogghigno beffardo con la bocca aperta. Il campione dei campioni è grasso, sfatto, ubriaco. Lo si vedeva frequentemente, in tv, barcollando. È evidente quanto ciò lo torturi. E lo si vede, Dieguito, dentro il suo nuovo involucro, bloccato, sofferente, eppure non si ribella. Non ci riesce. Quando improvvisamente si spostò a Cuba, la sua seconda casa dal 2002. Maradona aveva già avuto un attacco cardiaco causato dalla droga ad aprile, è vero, ma ufficialmente si disse che si trattava di un viaggio di routine. Era una disintossicazione.

A parte tutte le altre cose che hanno reso eccezionale il passaggio di Maradona sulla scena di cui tanti di noi erano pubblico, e delle cui cose si è detto e si dirà ancora molto, il libro di Leo Nodari  “Y todo el pueblo cantò” cerca di ricostruire quel che più ha emozionato, fatto sognare, piangere, esaltare commosso, in quegli anni là . Con gli strascichi che sono proseguiti.

Il libro di Leo Nodari  “Y todo el pueblo cantò: Vita, morte, miracoli e peccati dal calciatore più forte del mondo” ci permette di ricordare cose che sono state indimenticabili più che emozionanti. Questo libro che dovrebbe essere letto non solo da chi ha amato Maradona ma da tutti gli amanti del calcio, ci permette di recuperare ricordi da vecchi post, foto sbiadite, e incollarli in fila.

E condividere con l’Autore ogni riga, per ammettere alla fine che Diego è stato sintesi di bellezza e spavalderia, passione e tradimento, vita e morte, bianco e nero. Ma resterà per sempre il nostro “ooooooohh” ogni volta che lo rivedevamo. La nostra meraviglia ogni volta per lo spettacolo e per la naturalezza con cui giocava, propria di chi è il più forte e basta, e non doveva dimostrare niente. El Pibe de oro è tutto lì in quelle pagine. E di nuovo mi fa quell’effetto, lo stesso, stasera, leggendo questo libro.

Può morire un immortale Diego Armando Maradona  oggi compie 60 anni.  Auguri  al dio del calcio, al “pibe de oro”,  al “10” più amato della storia con le sue folli giocate,  calciatore unico e irripetibile.  Auguri  alla “mano de dios”  così meravigliosamente beffardo che si consacra ai posteri, dribblando ogni avversario ed eludendo i più impliciti dettami di quella che si chiama ‘sportivita” mentre i figli di Albione occupano militarmente le isole argentine  Malvinas.  Auguri all’uomo vero, generoso,  esagerato, polemico, ma mai reticente.E sempre a testa alta. Auguri Borges della pelota.

Chi pensa che Diego Armando Maradona sia solo “calcio” è fuori strada. Prendere o lasciare, Maradona era questo. Bambino senza freni cresciuto nella bidonville di Villa Fiorito a Buenos Aires tenuta insieme da orgoglio e povertà. Giovane indisciplinato che rifiuta i milioni del Barcellona e preferisce crescere tra  la polvere e le baracche, i vicoli e gli anfratti di una periferia. Numero 1 del mondo del calcio che riusciva a dribblare gli spazi stretti in cui far passare il pallone, rigorosamente di cuoio, regalato dal cugino Beto con il suo primo stipendio.  Profeta del gol cresciuto  senza allenatori. Con il rispetto da conquistare ogni giorno, giocata dopo giocata, rete dopo rete. Ragazzo cresciuto dormendo in  10 nella stessa stanza, che non aveva spazio per vivere libero, che non ha avuto giocattoli.  Anima fragile che  mi ha incantato e fatto sognare. Giocatore di calcio più forte di sempre.  Cercando di ricordarlo  mi sono maledettamente imbattuto su un video di un uomo in ciabatte, strafatto, perso, devastato da un balletto ipnotico con tutta quella carne addosso e chissà quanto alcool in pancia, che si allaccia come un vecchio orango ad una poco affabile bionda. Un video che gira che  non è collocabile con precisione nel tempo, ma collocabile certo nella parabola di un uomo che non la smette di dare scandalo di sé. Dal giorno in cui ha saputo che “essere Maradona” è una gigantesca menzogna e che vero è tutto il resto, la vita che passa. Due minuti scarsi che raccontano la grandezza al suo apice, il giorno in cui è perduta per sempre. Sulle note maliarde di “Bombon Asesino” dei  Los  Palmeras, i Casadei della cumbia argentina, Diego Armando Maradona, l’uomo che è stato in cima al mondo, ora mostra il suo culo nudo e flaccido. Come dire: “Prendetelo, fotografatelo e mostratelo, non sarà per questo che io sarò meno Maradona e voi meno miserabili”. Nemmeno Almodovar al suo meglio. Impossibile scansare lo sguardo. E dobbiamo dire grazie all’infame che, dopo averlo girato, lo ha messo in rete, a quel Giuda nascosto tra i presunti amici di Diego, che gli amici quasi mai ha saputo scegliergli. Quando sei stato Maradona puoi frequentare solo gli inferi, e le divinità, oppure nessuno. La decadenza di Diego non è un boulevard al suo tramonto, non c’è la cosmetica lussuosa e ridondante delle vite da star, ma una scena domestica pornografica per l’insieme di squallore e apatia, dove l’autodistruzione di Diego trova la sua via maestra. Proteggerlo da se stesso è impossibile. La strada è segnata. E anche il verso. Un intero libro non basterebbe a descriverne il carattere e le mille sfaccettature di un uomo che ha cambiato per sempre l’immaginario collettivo del mondo del pallone, con le sue magie, con la sua classe, con i suoi eccessi e le sue grandi debolezze. E’ stato il più grande di tutti, con buona pace di Pelè e di Messi. Un campione lontano dalla regale altezzosità di “O Rey”, diverso dalla lucida follia di George Best, o dalla glaciale classe di Johan Cruyff. La sua umanità, è la caratteristica che gli ha permesso di diventare prima icona, poi leggenda, infine mito. Amato dal popolo, perché è uno del popolo. Se sei il migliore di tutti tempi non lo decidono gli esperti, i tecnici, ma la gente, e Diego è per acclamazione il miglior calciatore di tutti i tempi. Da Villa Fiorito, quartiere povero alla periferia di Buenos Aires, ad entrare nella storia, il passo non è breve. E’ un cammino costellato dalla conquista di vette irraggiungibili, e di cadute pesantissime, dal quale sarebbe (il condizionale è d’obbligo) stato difficile per chiunque rialzarsi. Il tutto accomunato da un unico filo conduttore: un talento pazzesco mai visto prima in nessun giocatore. Si è liberi di credere o meno nell’esistenza di un Dio ordinatore dell’Universo, ma non si può mettere in discussione che in quel sinistro ci sia qualcosa di divino. Genio e follia, opulenza e decadenza. Maradona è Napoli. Gli scudetti, la Coppa Campioni, i gol impossibili, il pazzo amore della gente. La cocaina, i comportamenti da star capricciosa, la fuga, la squalifica. Maradona è stato l’unico  a cambiare il destino di una città, senza riuscire a cambiare il proprio. La tossicodipendenza, la depressione, i problemi di salute, insorti nella parte finale della sua carriera, ne modificano il profilo, in particolare per le nuove generazioni, che hanno avuta la sfortuna di non vederlo all’opera, e che possono rivedere il genio di Diego solo attraverso immagini, e filmati di repertorio. Ma i racconti di quelli che c’erano riescono a far rivivere il mito, anche a chi non c’era più quando Maradona era all’apice della sua carriera a Napoli. “ Che vi siete persi”, è una scritta che ancora campeggia sul muro di un cimitero di Napoli, dopo la conquista del primo Scudetto nel 1987. Non veder giocare dal vivo Maradona, e come non aver visto giocare Michael Jordan nel basket, o combattere Mohammed Alì nel pugilato. Maradona è la vittima del suo mito. Conseguenza inevitabile. Quando si segnano i gol che ha segnato lui, quando si è simbolo di riscatto di città (Napoli) e nazioni (Argentina), non si può scendere a patti con nessuno, tranne che con se stessi. E oggi, el “Pibe de oro”, ancora deve vincere la sua partita più importante, che non è quella con la cocaina. E’ una partita che continuerà forse all’infinito: Diego contro Diego. In attesa del risultato, ti rendiamo omaggio così.  O mamma mamma mamma  ho visto Diego giocare, compiere prodezze abbaglianti, perdersi e ritrovarsi.  Oggi ti mando i miei auguri Dieghito.

Del giocatore, immenso e unico, praticamente una divinità, quasi non vale la pena parlare. Sarebbe ovvio, superfluo. Sarebbe come voler dire chi era Odisseo, chi era Dante Alighieri, chi era Gesù Cristo nostro Signore, chi era Einstein, chi era Renzo Tramaglino. Trasfigurato dalla sua stessa gloria, probabilmente e semplicemente il più grande calciatore di tutti i tempi, Maradona è stato Uno e Due. Uno: il migliore e basta. Due: il perduto, lo smarrito. E questa sua seconda fase, lunghissima e dolente, è forse il miglior modo – sebbene tristissimo – per accompagnare il ricordo di Diego fino a questo epilogo tragico, un colpo di testa ma contro il pavimento e non contro un pallone, l’ematoma, il peggioramento repentino, il ricovero (l’ennesimo), le mani di un chirurgo purtroppo invano, la morte che ci annichilisce tutti.

Ma alzi la mano chi da anni non si aspettava che Maradona facesse una brutta fine, coerente con la sua caduta nel pozzo. Uno scivolamento lento e costante, progressivo e senza tonfi ma ogni volta sempre più giù, sempre più in fondo dove nulla può rischiare il buio, neppure il più bello dei gol, meno che mai la mano de Dios.

La seconda vita (ma era poi vita?) di Diego lo ha visto diverse volte in panchina, tentando una carriera da allenatore piuttosto improbabile: la carriera, e anche l’allenatore. E dire che a un certo punto gli consegnarono addirittura la Nazionale dell’Argentina, a furor di popolo, e Maradona la portò comunque ai quarti di finale di un mondiale, quello in Sudafrica nel 2010, quando l’Albiceleste venne eliminata dalla Germania (e poi, Diego esonerato). Eppure, la ricerca del peggio e del limite, della periferia sportiva e della marginalità agonistica, Maradona l’ha compiuta con animo girovago, cominciando ad allenare persino durante la prima squalifica per doping: eccolo infatti nel 1994 sulla panchina del Textil Mandiyù, squadra argentina ai più sconosciuta.

Una caratteristica, questo semi-anonimato dei club affidati a Dieguito, che proseguirà nel tempo in una serie bislacca che comprende l’Al-Wasli (Dubai), il Fujarah (Emirati Arabi), i Dorados (Messico), fino al ritorno in Argentina ma non certo al River Plate, o meno che mai al suo adorato Boca, semmai alla guida del Gimnasia La Plata. Come intermezzo non meno bizzarro, la presidenza onoraria di un club bielorusso, la Dinamo Brest, frammento di meteora nel firmamento del pallone.

Nulla, di questa sua seconda vita coerente col disastro e lo sperpero di sé, ha avvicinato la meraviglia e l’estasi della sua prima vita. Molti sono stati gli incontri clamorosi, da Fidel Castro a Chavez passando per Menem, ma è sembrato un folclore emotivo, la disperata ricerca di essere ancora qualcosa di unico, di clamoroso. Diego lo ha fatto a cicli, sparendo e riapparendo altrove, una volta più magro e un’altra volta più grasso, una volta biondo ossigenato e un’altra volta totalmente tatuato. Sempre danzando sul confine tra una vita perduta e una morte scontata vivendo, come avrebbe detto il poeta. Però, ragazzi, il poeta era lui.