La grande manifestazione di ieri a Roma  mi ha ricordato  la locuzione latina dello scrittore latino  Publio Flavio Vegezio  “Si vis pacem para bellum” che ha almeno due interpretazioni. La prima, più immediata, è quella che ti comunica che se vuoi la pace devi armarti per dissuadere i tuoi potenziali nemici. La seconda, meno intuitiva, è quella che si traduce in un invito a prepararsi a combattere perché solo attraverso la guerra si può ottenere la pace quando c’è un conflitto non risolvibile diversamente.
Il dibattito sul nostro coinvolgimento nella guerra in Ucraina potrebbe portarci a modificare questo famoso detto in “Si vis pacem perpetua bellum” (se vuoi la pace prosegui la guerra). È la tesi di chi sostiene che bisogna continuare a sostenere militarmente il governo dell’Ucraina fino al raggiungimento della pace. Tutti costoro sono per la pace, ci mancherebbe altro! Sono tutti pacifisti, anzi sono per una pace «giusta», solo che per questa strada la pace potrà arrivare, come sostiene Zelensky, dopo che l’armata russa si sarà ritirata dai territori occupati. Il che significa che la Russia di Putin viene sconfitta dalla Nato e che Putin accetti di perdere non tanto la faccia quanto la vita, perché sa bene che dopo aver mandato al macello centinaia di migliaia di giovani non ha giustificazioni che lo salvino.

E’ questa la tesi a cui aderisce anche un’area significativa della sinistra storica, perché ritiene che se non avessimo inviato le armi all’Ucraina lo zar Putin si sarebbe impadronito di tutto il paese e avrebbe messo a Kiev un governo fantoccio. Il che è probabile. L’alternativa è tra continuare questa guerra alzando sempre più il tiro, colpendo sempre più i civili e le condizioni di sopravvivenza del popolo ucraino, fino al rischio nucleare, o iniziare i negoziati a partire da un immediato «cessate il fuoco». Tertium non datur. Immaginare che la Russia possa essere sconfitta sul piano militare è mera illusione. Non c’è riuscito Napoleone, che aveva conquistato la gran parte dell’Europa, e nemmeno Hitler che disponeva del più potente esercito degli anni ’40 del secolo scorso. Il rischio concreto, che è sotto gli occhi di chi vuole vedere, è che lo zar ferito diventi sempre più feroce, e pur di non perdere Crimea e Donbass è capace di distruggere un intero paese. Immaginare che Putin possa essere fatto fuori dai suoi nemici interni – guerrafondai come se non peggio di lui – è abbastanza improbabile. Ogni dittatore è stato eliminato quando ha perso la guerra e non durante una guerra che, in generale, lo rafforza giocando sui miti patriottici.
La richiesta di apertura immediata di negoziati, come è stato fatto per il grano e mais, è la scelta più realistica, sensata e logica che si possa fare.
Il pacifismo oggi non ha niente di utopistico. Continuare questa guerra è follia pura, che fa gli interessi dell’apparato militare-industriale ma rischia di portare nel baratro l’umanità. La Russia deve fermare l’aggressione, l’Ucraina accettare un negoziato. Il ruolo della comunità internazionale può essere determinante.

Kiev oggi è sotto attacco. Pochi giorni fa eravamo in quella splendida città, a sostenere i gruppi della società civile che vogliono vie di pace. Dobbiamo unirci alla loro voce, che grida insieme ai cittadini russi che non vogliono partecipare a questa guerra. Abbiamo portato aiuti in Ucraina, abbiamo dato rifugio a chi lo cercava. Ora dobbiamo anche lavorare per facilitare una soluzione pacifica. Prima che sia troppo tardi. Le mobilitazioni nelle città italiane e la manifestazione nazionale per la pace del 5 novembre a Roma, assumono ancor più significato: siamo tutti coinvolti. Una manifestazione popolare, e quindi di popolo. Un lungo corteo, per le vie della capitale, aperto a tutte  le persone che vogliono la pace, preoccupate per questa guerra, solidali con le vittime, che provano pena e dispiacere per i troppi morti. Giovani e anziani, anche coloro che la guerra l’hanno conosciuta, che sanno cosa significano gli allarmi, le bombe che cadono sulle città. Ognuno aveva la sua motivazione per esserci: che sia la paura per il futuro, che sia la condanna dell’invasore, che sia il sostegno agli aggrediti, che sia “per fare qualcosa per la pace”, che sia per sentirsi parte di un grande movimento.  Tantissime associazioni, variegate e colorate, laiche e religiose, piccole e grandi. È questa è stata nei fatti la grande novità: la manifestazione è cresciuta dal basso, si è imposta spontaneamente, voluta da migliaia di singole persone che sentivano il bisogno e la necessità di esprimere il loro desiderio che le armi tacciano e che la parola sia data al negoziato per la pace. Chi ha  aderito e partecipato lo ha fatto assumendo questa posizione, che è quella di una terza parte che vuole fermare l’aggressore e portare l’aggredito al tavolo negoziale per una pace giusta. Siamo dalla parte delle vittime, senza necessariamente assumerne il punto di vista per convocare la Conferenza di Pace che possa far tacere le armi e offrire una via d’uscita giusta e duratura, senza vinti e vincitori.