Sono passati lunghi e spietati anni dalla scossa del 6 aprile 2009  e da quelle successive del 2016 e 2017. Articoli e servizi strappalacrime e commemorativi (talora purtroppo inutili), assieme a quelli di denuncia (troppo pochi), si sono succeduti.

Nel frattempo, giorno dopo giorno, i nostri terremotati si sono sentiti sempre più dimenticati, sempre più abbandonati. Poi, alla rassegnazione più nera, nel cuore di molti è subentrato un sordo risentimento. Noi, che “viviamo sicuri nelle nostre tiepide case”, intercettiamo qualche notizia qua e là, ci commuoviamo facilmente – un’emozione narcisistica per sentirci buoni a poco prezzo – ci indigniamo per qualche giorno e poi ritorniamo nella nostra ignoranza per quanto riguarda luoghi, comunità e persone.
Alcuni tra noi, invece, anime eccelse, si impegnano in altre solidarietà, applauditi dalla politica, dagli intellettuali e – perché no – da certa Chiesa, laddove la mano sinistra sa benissimo cosa fa la destra e lo pubblicizza, esibendo un “alto” senso morale, che ovviamente squalifica nell’ignominia ogni tiepido o scettico.

E poi ci sono loro, i terremotati, che sono di gran lunga migliori di noi. Non sono migliori di noi perché sono vittime. L’essere vittima non rende una persona migliore. Sono migliori di noi perché stanno tentando disperatamente e tenacemente di continuare a esistere, di esserci, di non darla vinta a lu tirimotu, alla burocrazia incomprensibile, gigantesca e immobile, alle ruberie endogene ed esogene, all’inesorabile e impietoso trascorrere del tempo. Ai nostri silenzi colpevoli.

Lu tirimotu ha mietuto quasi trecento vittime. Ma il computo dei morti è molto più alto. Circa un morto al giorno per suicidio negli ultimi anni. Disperazione. Depressione. Alcolismo. Droga sono seguiti. Il suicidio ha concretizzato la disperazione di coloro che avevano perso tutto, che han rinunciato a combattere, straziati nelle menti e nei cuori. È il rantolio di coloro che, per lo più anziani, hanno deciso di congedarsi per sempre, unendosi alle sorti disgraziate dei loro amati borghi in rovina, vittime dello sradicamento e di quell’indeterminatezza che sempre procrastina e che talvolta uccide. Dall’ascolano al fermano e al maceratese, da Amatrice a Norcia, incombe un silenzio di morte in un’area vergognosamente ancora troppo estesa, con case sprangate, muti campanili pericolanti (se va bene), rovine sovente non ancora rimosse dopo due anni. Non vi sono più famiglie che aprano terrazzi e logge. Non è risorto il territorio, non è tornato il lavoro. Per non impazzire, per tirare a campare, molti si imbottiscono di psicofarmaci, con picchi di consumo che lasciano attoniti. Ma di questo politica, salotti e stampa preferiscono parlare poco e per sibili. Gli esseri umani si spezzano, gli Stati falliscono nelle loro missioni fondative, il senso di nazione si smarrisce.
Conosco molti aquilani, umbri e marchigiani: gente schietta, ben temprata, abituata a molto sopportare. Gente forse un po’ diffidente e ruvida, ma laboriosa, educata e dignitosa. Mi è caro l’accento maceratese, naif e un po’ strascicato. Conoscevo luoghi e persone ben prima dell’agosto 2016. So che il territorio dei Sibillini coincideva con uno splendido esperimento, coronato da successo, di investimento sulla montagna appenninica, voluto e condotto dalla sua popolazione autoctona. Un unicum (e un modello) in tutto l’Appennino, questa stupenda e bistrattata macro-regione italiana, priva di qualsivoglia statuto speciale, per cui non esistono seri e realistici piani di sviluppo economico-energetico e culturale da decenni, ove abita ben oltre il 30% del nostro popolo.
So che vi era un turismo florido e in crescita, coniugante arte, cultura, fede, natura ed eno-gastronomia, troppo ignoto agli italiani ma fortunatamente apprezzato e ricercato da moltissimi stranieri. I Sibillini: un eccezionale eco-museo. Un’opportunità. Un’opzione socio-economica che permetteva di frenare lo spopolamento della montagna; di mettere in gioco vivaci ed eterogenee energie culturali; di vivere con dignità, gusto e soddisfazione a moltissimi agricoltori e allevatori. Tutto questo è stato crudelmente divelto dal terremoto. Ogni nostro colpevole ritardo –sia della politica sia dell’opinione pubblica- assomma sisma a sisma, morte a morte, diniego a diniego. Perché se si vuole -come è doveroso- che queste zone risorgano, il fattore tempo è elemento essenziale e primario, prima che il tessuto sociale si sfilacci al punto da risultare perso per sempre.
In un’epoca di pusillanimi e di assenza di modelli, tra questi “monti azzurri” ho conosciuto esseri umani che una volta si soleva definire ‘veri uomini’ (e donne). Tra costoro, alcuni, stremati, hanno costruito nelle loro proprietà delle capanne di fortuna per rifugiarsi e per dormire, per ovviare ai continui spostamenti, alle spese e alla spossatezza: sono stati vittime di denunzie penali per abusivismo edilizio. Queste persone sono tutti eroi italiani. Eroi veri, delle cui storie l’Italia ha bisogno per sanarsi da troppe cattive e stupide idee (o pose intellettuali e politiche) da cui siamo affetti. Sono eroi veri, e dunque dimenticati, perché smascherano la nostra ipocrisia e la nostra colossale inadeguatezza. Sono eroi, nonostante siano offesi, arrabbiati e, giustamente, molto preoccupati.