Questa volta voglio parlarvi di una diciassettenne, Noa Pothoven, cittadina olandese, che aveva subìto, dall’età di 11 anni, tre stupri.
Già se ci fermassimo qui, potremmo ampiamente riflettere e considerare quale vita questa ragazza è stata costretta a portare avanti, custodendo al suo interno queste atroci bestialità che le erano state marchiate addosso, come un orrendo invisibile tatuaggio.
Quei tatuaggi che ti mangiano l’anima e che creano uno schermo a tutti i tentativi di empatizzare il suo stato ed alle compenetrazioni che familiari e psicoterapeuti avranno sicuramente escogitato perché la sua mente trovasse un possibile conforto.
Purtroppo ai tanti alleviamenti psichici che le erano stati confezionati, evidentemente si contrapponevano altrettante angosce, che evidentemente sono riuscite ad avere il sopravvento.
Sì, perché Noa, con l’autorizzazione dei genitori, ha chiesto di porre termine alla sua vita e, in virtù di una legge olandese che consente dall’età di dodici anni, di chiudere la propria esistenza, ha domandato che le fosse praticata l’eutanasia.
Credo che sia significativa questa notizia in quanto, fino ad ora, eravamo a conoscenza della pratica della eutanasia come estremo atto voluto sempre da maggiorenni, che concludevano le incredibili ed atroci sofferenze dovute a stati clinici di natura fisica, talmente irreversibili da permettere la sola vita vegetativa.
Noa ha posto fine ai suoi giorni, perché per lei, era non più sopportabile continuare a vivere, schiacciata da episodi traumatici che aveva subìto nel corso di sei anni..
Pensiamoci tutti: Noa ha prolungato una sua vita che, forse si era già fermata quando le erano state inferte queste ferite emotive e psicologiche.
Ha continuato ad esistere con un suo fardello, terribilmente pesante: chissà, avrà forse immaginato che, “con il tempo”, questi terribili ricordi avrebbero potuto affievolirsi, fino a scomparire.
Nulla di ciò: certe “malattie dell’anima” invece scavano, creano tunnel lungo le cui pareti si possono ascoltare assordanti urla che avrebbero potuto scatenarle un senso di liberazione.
A quel punto, sperimentata ogni formula necessaria a sconfiggere una forma depressiva che la ragazza aveva manifestato anche attraverso comportamenti anoressici, la morte le sarà sembrata come una leggerezza, un autentico estraniarsi da quella che doveva apparirle come una non vita.
Ho ritenuto necessario “puntare i riflettori” su questa storia angosciante, in quanto la depressione sta mietendo sempre più vittime.
Noa questo mal di vivere lo portava con sé, le era stato compagno di vita nel corso dei suoi ultimi sei anni, fino a che deve essersi fatto sempre più spazio al suo interno la convinzione che morire fosse il “male minore”.
Per quanto assurdo possa sembrare, Noa era entrata nella lucida determinazione di togliersi la vita con l’assistenza medica, perché quella sarebbe stata per lei una “soluzione” che avrebbe chiuso un periodo “spento”, senza entusiasmo e senza curiosità, senza slanci e senza sogni, senza progetti e senza desideri.
di Ernesto Albanello