TERAMO – Nei giorni scorsi cadeva il cinquantesimo anniversario dei fatti dell’Aquila. La rievocazione fatta dai mass media è stata senz’altro utile e approfondita, come del resto puntuali sono state le dichiarazioni di Gianni Melilla e Stefania Pezzopane. Ciò che purtroppo è mancata è stata la riflessione dei partiti, che avevano il dovere di trasmettere alla nuove generazioni un messaggio importante sui quei fatti sotto il profilo storico e politico. Ascoltare la voce delle forze politiche era necessario perché il nostro Paese ha bisogno di coltivare la Memoria, soprattutto in una fase storica e drammatica come quella che stiamo vivendo con la persistente diffusione del virus che miete ogni giorno centinaia di vite umane, con i rapporti sociali sempre più rarefatti, con una crisi economica che rischia di affossare il Paese e che già oggi fa pagare il prezzo più alto ai ceti meno abbienti e bisognevoli di aiuto. In questo contesto, coi i disagi e le sofferenze che aumentano di giorno in giorno, c’è sempre il rischio che si possano mettere in moto meccanismi perversi che nessuno riesce poi a governare. Forse, anche per questo, ho sentito l’obbligo morale di tornare con la memoria a quei tragici momenti, che gettarono nel panico l’opinione pubblica abruzzese.

“I fascisti hanno messo a ferro e fuoco l’Aquila”. Annunciò con voce tremante lo speaker della radio. Era questa la notizia terribile che si diffuse come un lampo. La Federazione Comunista di Teramo diramò una direttiva: bisogna subito raggiungere L’Aquila. Partimmo. Eravamo in molti, quasi tutti giovani. Ci barricammo nella sede messa a disposizione dall’Alleanza dei Contadini. Seppi poi che alcuni di noi erano regolarmente armati. Si temeva del resto che i fascisti potessero ripetere il saccheggio della mattinata. Nel cuore della notte sentimmo bussare alla porta. I compagni che erano di guardia non aprirono. Chiesero allo sconosciuto di identificarsi. “Sono Nino, Nino Carloni. Aprite!” Dopo i saluti e gli abbracci, la prima domanda che alcuni di noi si posero fu questa: come può l’avvocato Carloni, uno dei dirigenti più prestigiosi del Partito, musicologo di fama, circolare liberamente in una città nelle mani delle forze eversive?

L’indomani mattina arrivarono da Roma Paolo Bufalini e Gerardo Chiaromonte. Nel corso della riunione fu riferito l’episodio. E si cominciò a comprendere ciò che realmente era accaduto. Sì, i fascisti, i caporioni missini avevano avuto un ruolo rilevante. Avevano fomentato la rivolta. Ma era L’Aquila, era la città che si era ribellata. Infatti, gli artigiani, i commercianti, gli impiegati, i professionisti, i cittadini di diverso orientamento politico avevano partecipato alla sommossa. Viene redatto subito un volantino dal titolo: “Appello dei comunisti ai cittadini aquilani”. Migliaia di copie vengono diffuse in poche ore in tutti quartieri e nei posti di lavoro. E’ il primo atto che si compie per recuperare il rapporto con la città. Il 7 marzo una grande manifestazione con Pietro Ingrao in piazza Duomo ripristinò l’ordine democratico.

Nei giorni successivi il Partito aprì una riflessione che coinvolse il quadro dirigente e migliaia di militanti. L’Aquila, una città colta e civile, dalle solide tradizioni democratiche, come e perché era caduta così in basso? Furono individuati limiti, insufficienze ed errori nel nostro operare. Nella fase finale della trattativa con le altre forze politiche – purtroppo – c’erano state delle oscillazioni. Qualcuno addirittura aveva adombrato la creazione di un doppio capoluogo. Tale proposta – respinta prima del voto – fu diffusa dalla stampa.

Antonio Topitti

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