L’idea di riposizionare lo storico “due di coppe”, all’ingresso di Corso San Giorgio, nel cuore del centro storico di Teramo, al di là della opportunità della ricostruzione “com’era e dov’era” di un manufatto che, nel 1826 fu realizzato a “sostituzione” della più antica Porta San Giorgio, per essere poi demolito nel 1929, riapre il dibattito su quello che potrebbe, e dovrebbe, il futuro della nostra città.
Ciclicamente, con le migliori intenzioni, vengano avanzate proposte di “ricostruzione” di parti storiche del centro cittadino, ormai perse per sempre, come per l’ex teatro (inaugurato nel 1868 e demolito nel 1959, per far posto all’attuale edificio che ospita il cineteatro e i sottostanti locali commerciali), mentre per altri siti, come il teatro romano (per il quale, più correttamente, si parla di recupero dei resti e rifunzionalizzazione del sito), o l’ex complesso manicominale (il cui recupero, si spera, dovrebbe iniziare a breve) il dibattito sul loro riuso dura ormai da decenni, privando la città, e i cittadini, di ampie parti di città.
Ma se è necessario conservare le testimonianze del nostro passato (ricordandole, ai più, non solo attraverso il restauro dell’esistente, ma anche con incontri, mostre fotografiche, progetti, lezioni nelle scuole, in modo che la storia della città diventi patrimonio comune), forse – ed è un mio parere – la riproposizione posticcia di qualcosa che c’era, e ora non esiste più, potrebbe trasformarsi in uno sterile tentativo di recupero di una memoria, arbitrariamente scelta tra vari periodi storici, senza una lettura generale di quello che è, e potrebbe essere, il futuro della città.
Può il cittadino, sulla base di un sentimento di ritorno ad un ipotetico periodo storico virtuoso (su quale, poi, ci sarebbe da discutere: l’Interamnia romana? la Teramum medioevale; la Teramo settecentesca o ottocentesca?) chiedere la ricostruzione dei monumenti di una città che fu, senza preoccuparsi della città che sarà? E la richiesta “popolare”, è sempre quella migliore?
A questo in parte risponde l’interessante affermazione di Silvio Paolini Merlo, nel periodico “Teramani” del febbraio 2010, sul teatro comunale:
«A decretare la fine del Teatro Comunale di Teramo non fu la povertà dell’Italia postbellica, non furono gli impresari, non fu una classe politica, la quale non interpretava altro che le esigenze e i desideri di un’intera popolazione. Fu la Città, furono i teramani, fummo noi. La congiura non fu di parte, di classe, di partito. Fu collettiva. Le responsabilità non furono solo di un’amministrazione miope, di una direzione artistica inesistente o di un pubblico impreparato. Fu anzitutto l’acquiescenza diffusa a un malcostume sociale per cui la cultura artistica, specie quella drammatica, rientra a tutti gli effetti fra i beni voluttuari, assegnati all’effimero, e come tali facilmente rimpiazzabili»
La demolizione del teatro comunale fu accettata dal “popolo”, su spinta della politica, in cambio di una presunta “modernità”, di posti di lavoro, di servizi (il supermercato) indispensabili, o almeno creduti tali, per quell’epoca. Ora il “popolo” vorrebbe ricostruire quello che, il suo omologo del passato, ha, più o meno allegramente, distrutto. E’ giusto? Forse potrebbe essere utile, ma sarebbe sicuramente più utile conoscere il progetto di recupero dell’ex manicomio, stranamente passato sotto silenzio rispetto al clamore destato dal teatro romano; e sarebbe ancor più utile ragionare sulla città, su quale identità ha e vogliamo che abbia; sui tanti spazi pubblici e privati del nostro territorio, che hanno bisogno di riqualificazione; sui tanti, troppi, contenitori vuoti che attendono una destinazione; su aree, quale quella dell’ex campo della fiera, per le quali vengono avanzati progetti non legati con il resto della città.
Già, la città, eterna assente nelle visioni progettuali che si limitano a trattare una singola porzione di territorio senza “vedere” quali effetti potrebbe avere un intervento locale in un’ottica generale.
E così ci accontentiamo di un due di coppe, dimenticando che la briscola è bastoni, rischiando di perdere la partita, la cui posta è il futuro di Teramo, e dei teramani.
di Raffaele Di Marcello