E’ un Papa malato, inerme e tremante quello che vediamo per l’ultima volta in Tv mentre supplica. La gente di Roma accorre in piazza, sempre più numerosa, come un torrente che si ingrossa dopo la pioggia. Arrivavano e si fermavano, in attesa, zitti. Si indicavano l’un l’altro una finestra con le persiane aperte, e le tende tirate. Quella, lassù: là dietro, Giovanni Paolo II stava morendo. Ma pareva quasi che la folla in piazza non volesse crederci davvero. Dall’intensità con cui molte donne recitavano il Rosario, si sarebbe detto che domandassero, ostinatamente, una grazia: che il Papa vivesse. Il cielo andava scurendosi, sopra a San Pietro stridevano i gabbiani. Un gruppo di ragazzi, proprio sotto alla finestra del Papa, gridava, scandendo le sillabe: “Gio-van-ni Pao-lo! Gio-van-ni Pao-lo!”. E sembravano bambini che chiamano dal cortile un coetaneo, convalescente da una malattia da poco, perchè scenda, e torni con loro. Mi chiesi se Karol Wojtyla, li poteva sentire ancora. Ne avrebbe, credo, sorriso.
Alle 21.37 di sabato 2 aprile 2005, al primo vespro della Domenica della Misericordia monsignor Comastri disse gravemente alla folla che quella sera, o quella notte, Cristo avrebbe aperto le porte al Papa. Era morto un gigante della storia. Ma molto di più. Indiscusso protagonista dell’ultimo quarto di secolo del Novecento, primo Papa proveniente dell’Est Europa, eletto nel 1978 quando ancora il Vecchio Continente era diviso in due dalla cortina di ferro. Allora si sentì il freddo sulla piazza – e non quello di una sera di aprile. L’annuncio, infine, quando ormai era buio, colpì la folla come un pugno. Scese il silenzio, ma diverso da prima. Per molti, giovanissimi, quella era la prima morte di una persona cara; e gli si vedeva nello sguardo lo schiaffo, secco, duro. Le campane presero a rintoccare, lente. Ci furono, quella notte, ragazzi che dormirono sotto il colonnato – così come non avrebbero lasciato solo il proprio padre morto. Ce ne furono che vennero da ogni parte, in cinque su utilitarie scalcagnate, baristi, commesse, operai, che arrivarono prima dell’alba. Ci fu poi, in quelle ore, chi, magari distrattamente credente, si accorse all’improvviso, tuttavia, di un vuoto. Che mancava qualcosa, qualcuno, senza quell’uomo. In quanti avvertirono, ai rintocchi delle campane di San Pietro trasmessi in tv, che, più che il Papa, era morto un padre. Un padre di figli di ogni età, adolescenti come quelli che ancora lo chiamavano sotto la finestra al tramonto, e adulti, e vecchi, o lontani. Qualcuno nel lutto scopriva in sé il marchio di quella paternità, soltanto ora che “lui” era morto. Non accade forse anche in molte case, quando si vive distratti o affannati o divisi, di capire solo all’ultimo istante quanto bene si voleva, al padre che se ne è andato? Una moltitudine di figli in tutto il mondo pianse quella notte un padre comune. Se un segno della santità è ciò che appare sulle facce dei vivi, quando sanno notizia, allora già negli sguardi di quella folla in San Pietro, in quel silenzio, si poteva sospettare che fosse morto un santo. Poi, venne la prima mattina della veglia. Alle luci dell’alba, una folla immensa già gremiva tutta via della Conciliazione, e continuava a arrivare, a passo svelto, per dire addio al Papa, e poi a andare al lavoro. Avevano i bambini addormentati in braccio, perchè ci fossero anche loro. Centinaia di pullman erano calati a Roma da tutta Italia e non solo, nella notte, per quell’ultimo saluto. E ora tutti stavamo fermi nella calca, a aspettare che la basilica aprisse le sue porte, muti.
Il sole si andava alzando in fondo a via della Conciliazione. La sua prima luce si specchiava sulla facciata di San Pietro. Qualche mamma diceva al bambino che aveva per mano: “Voltati, guarda l’alba”. Io pensavo ai grafiti sulle prime tombe cristiane, sotto alla basilica: Alfa, Omega. Ma, anche, invertiti: Omega, Alfa, a dire che la fine è, in verità, il principio. Rivedo quella interminabile colonna di uomini venuti a salutare il Papa. Quanti figli, mi dicevo, può avere, un uomo. E attorno intanto l’allargarsi di quel chiarore aurorale – come a segnare una nascita, e non una morte.